Se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa

Riflessioni di Enrico Mauro, docente presso l’Università del Salento, sulla meritocrazia anche alla luce del discorso di Papa Francesco lo scorso maggio.

papa francesco

All’Ilva di Genova, il 27 maggio di quest’anno, rispondendo a delle domande, il Papa ha detto cose che hanno dato e continuano a dare molto da riflettere. Il titolo di questo articolo è una delle considerazioni più toccanti che il Pontefice ha fatto in quell’occasione.

Il discorso del Pontefice

Parlando del «disvalore» della meritocrazia, del fatto che «meritocrazia» non è sinonimo di «merito» («partitocrazia» è sinonimo di «partito»?), che la meritocrazia «snatura e perverte» il merito, che la meritocrazia «sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza», il Papa ha detto tra l’altro (ma il discorso ‘meriterebbe’ di essere letto per intero, affisso nei luoghi di lavoro, letto, riletto, mandato a memoria e dibattuto nelle scuole…): «Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e, quindi, un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa».

Le conseguenze della teoria meritocratica

Una delle conseguenze più funeste della teoria meritocratica è, infatti, proprio questa: chi crede di avere successo solo perché se lo merita, e non anche o principalmente per fattori casuali, per fortuna naturale e sociale, genetica e familiare, biologica e storica, perché per caso è nato in un certo Paese, in una certa zona di quel Paese, da genitori con una certa cultura e certi titoli di studio, con certe doti naturali, costui non sente il bisogno di fare qualcosa per aiutare altri, per migliorare l’ambiente economico-sociale in maniera che anche altri possano avere, se non successo, perlomeno condizioni di vita e di lavoro dignitose, soddisfacenti.

Rovesciamo il discorso

Rovesciando il discorso, solo chi riconosce che il suo successo è dovuto anche o principalmente alla fortuna, naturale e sociale, è disposto a investire tempo, energie e risorse per migliorare a beneficio altrui ciò che lo circonda. Se credo che il mio successo dipenda solo da me, non sentirò il bisogno di condividerlo con nessuno. Se invece sono consapevole che ho, senza merito alcuno, beneficiato di condizioni che mi hanno permesso di fare qualcosa,di diventare qualcuno (avrei avuto lo stesso successo se i miei genitori non avessero potuto mandarmi a ripetizioni, all’università o all’estero o se fossi nato in una grotta o nel deserto?), probabilmente sentirò di dovermi ‘sdebitare’, di dover condividere una parte della mia ricchezza.

Se iniziassimo o tornassimo a pensare che, in altre condizioni, il povero sarebbe stato energico, abile, colto, benestante, ci toccherebbe affrontare il difficile problema di come compensare con la cultura, politica e morale, ciò che è irragionevolmente divaricato solo per natura, di come fare di una società un sistema di equa cooperazione, di mutua assistenza, di vantaggio reciproco. Mentre è molto più facile, per i più avvantaggiati, (far) credere che il povero sia tale perché pigro e incompetente e che la società sia un luogo in cui chi nasce fortunato ha diritto di godere della fortuna fino in fondo, a beneficio anche dei suoi discendenti, e chi nasce sfortunato ha solo diritto di sperare che la vita dopo la morte sia meno ingiusta.

Magari molti «ultimi» si consolano al pensiero che saranno i «primi» dopo la morte, ma molti altri ultimi non disdegnerebbero di essere ‘meno ultimi’ già prima della morte.

di Enrico Mauro



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