I viaggi di Davide Urso: l’arrivo a Vienna e la visita al campo di concentramento di Mauthausen

Davide Urso ed i suoi viaggi: l’arrivo a Vienna, il feeling con la citta austriaca e la visita al campo di concentramento di Mauthausen.

Giorno 55 – Mauthausen, km 15380

La giornata più incredibile l’ho vissuta oggi, senza dubbio alcuno; sono stato catapultato in una dimensione parallela, quella della sofferenza e dell’obbligo morale, che non avevo previsto e non avrei immaginato, ma l’ho fatto e non me ne pento. Questa sera, dopo quella in cui ho toccato Capo Nord, è stata la seconda volta in cui mi sono sentito orgoglioso di ciò che abbia realizzato.

Il problema di fondo del vivere una vita da nomade, cercando di scoprire quanto più possibile e lasciandomi trasportare dalle occasioni, è che non tutti la accettano e pochi la apprezzano; sono abituato, quindi, a non sentirmi fiero di ciò che faccio, anzi, di vivere con un leggero ma costante senso colpa, complice il fatto che nessuno di coloro a cui voglio bene mi manifesti apprezzamento e che i commenti generalmente sono indirizzati a che lasci tale stile di vita e ne intraprenda uno più stabile; fatto sta che ho imparato a vivere la mia vita, senza aspettarmi applausi e vedendola come un’esistenza abbastanza normale, tra l’accettabile e il mediocre.

Mentre mi muovevo da Budapest, in direzione Vienna, ero intrepido, fremevo per capire cosa mi aspettasse da lì a qualche ora, quando avrei toccato un’altra delle cinquanta città più belle del mondo (qui l’elenco completo), la città elegante per definizione, la città che per secoli ha rappresentato il centro culturale mondiale, dalla musica alla filosofia alla letteratura. Fino a oggi ho amato il prestigio di Vienna, ma oggi ho amato Vienna, nella sua interezza. Ho subito trovato feeling con la città, mi sono sentito a mio agio e ben protetto da tutti quegli edifici bianchi e signorili che fiancheggiano i viali, dai parchi ben curati e dalle piazze a misura d’uomo, ben vivibili.

Erano le 11 quando ho parcheggiato e montato il cavalletto, mi sono fiondato verso il centro con l’illusione di un bambino di fronte a una giostra. Girovagavo per il centro da tre ore, avevo già terminato il Free Walking Tour, quando mi è sobbalzato il ricordo, grazie a qualche strano meccanismo inconscio, che mio nonno, classe 1922, venne imprigionato dai tedeschi proprio in Austria. La curiosità era troppa, volevo capire in quale luogo precisamente.

Vorrei permettermi un excursus su questa persona (non è importante ai fini del racconto, ma ho voglia di scriverlo, se non vi interessa potete saltare il paragrafo): Urso Giuseppe fu uno dei primi combattenti a essere stati catturati dai tedeschi dopo il dietrofront italiano, venne trasportato a Bolzano e in seguito in un campo di concentramento austriaco; da qui, pochi giorni prima della liberazione del campo, decise di scappare assieme ad altri quattro italiani e ci riuscì; arrivò ad Andrano, dopo 1600 chilometri, a piedi, camminando per sentieri e boschi, attento a non farsi sorprendere dalle truppe tedesche. Arrivò a casa che pesava meno di 40 chili; giocoforza diventò l’eroe del paese e ogni anno le scolaresche lo intervistavano, con lui che raccontava sempre la stessa storia, e la raccontava anche a noi nipoti, che a dire il vero eravamo stanchi e annoiati di sentirla (adesso che non c’è più vorremmo tanto riascoltarla, guarda un po’).

Racconto ciò perché in tutte queste interviste mio nonno non ha mai menzionato in che campo di concentramento fosse stato rinchiuso e, ancor più strano, a nessuno è mai interessato; fino a oggi, quando ho iniziato, con mio padre e mio cugino, una ricerca incrociata con i vari indizi che ci ricordavamo del racconto. È uscito fuori che la soluzione più probabile fosse il campo di prigionia di Mauthausen.

Ero a Vienna, in una città meravigliosa e che tra due giorni avrei già dovuto salutare, ma avevo la possibilità di visitare il luogo che ha distrutto mio nonno per più di due anni, quell’incubo che sovente raccontava e che tanto ha forgiato la sua personalità. Non avevo dubbi, mi sentivo obbligato ad andarci, dovevo. Per me, per mio nonno, per la mia famiglia.

Convinto di ciò, ho lasciato di visitare il centro storico e mi sono diretto all’auto; così ho guidato per due ore e sono arrivato in quel posto brutto, grigio, recintato da filo spinato, a un chilometro dal paese, su una collina. Era già buio e le visite erano terminate, per cui ho guadagnato un posto tranquillo dove parcheggiare, cucinare, lavarmi versandomi dell’acqua con una tanica da 5 litri a mo’ di doccia rudimentale, quindi ho chiacchierato con una coppia spagnola che viaggiava in van, anche loro in attesa che arrivasse l’indomani ed entrare nel campo di concentramento di Mauthausen, quel famoso campo che ospitò il padre di mio padre. Aspetto anche io, sdraiato nel cofano del mio furgoncino, che arrivi domani, tristemente pensando a chi era Urso Giuseppe, quel signore con la pipa che guidava il trattore con la moglie al fianco, con i baffetti sempre uguali nei decenni e che ogni volta che mi vedeva mi diceva “Fatte ‘a barba!

Mi perdonerà la meravigliosa Vienna, ma la libertà, che sento mia, di visitare il bello che c’è nel mondo non ha armi contro la forza di volontà che mi obbliga a fare ciò che va fatto. Per la seconda volta in due mesi mi sono sentito orgoglioso.

Davide Urso



In questo articolo: