Strage di Ustica. L’ultimo volo del DC-9 Itavia inabissato in mare insieme alla verità

A distanza di anni nessuno è riuscito a ricostruire l’ultimo drammatico volo del DC-9 dell’Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo. L’aereo di linea precipitò in mare mentre sorvolava le isole di Ponza e di Ustica. Nel disastro persero la vita 81 persone.

Alla storia passò come la «Strage di Ustica», ma solo per una tragica “coincidenza”. Il 27 giugno 1980, quando mancava meno di un minuto alle 21.00, un aereo di linea decollato con due ore di ritardo dall’Aeroporto «Guglielmo Marconi» di Bologna e diretto a Palermo scomparve improvvisamente nel cielo tra le isole di Ponza e Ustica.

L’ultimo contatto radio tra il velivolo ed il controllore era avvenuto delle 20.58. La chiamata di rito alle 21.04 per l’autorizzazione di inizio discesa su Palermo, dove era previsto arrivasse alle 21:13, fu senza risposta. Ci riprovarono una, due, tre volte… sia dalla Torre di controllo dell’aeroporto di Palermo, sia da altri due voli dell’Air Malta che seguivano la stessa rotta… Silenzio. Nello scalo palermitano, intanto, i familiari dei passeggeri iniziano un’attesa che sarà infinita e si rivelerà, purtroppo, anche vana.

Alle 21.55, l’aereo risultava “disperso”, sparito nel nulla, mentre si iniziava a profilare l’ipotesi di un incidente. Per tutta la notte elicotteri, aerei e navi perlustrarono la zona e solo alle prime luci dell’alba una chiazza oleosa e i primi relitti restituiti dalla profondità del mare hanno permesso di capire cosa fosse successo in quei minuti: il velivolo era precipitato in mare alle 20.59.45″ portando con sé tutta una serie di interrogativi che non hanno mai trovato risposta.

Il bilancio è tristissimo: nessun superstite, nessun sopravvissuto. La conta delle vittime arrivò fino ad 81: 77 passeggeri, tutti di nazionalità italiana, più 4 membri dell’equipaggio. Tredici i bambini a bordo: il più giovane, Giuseppe, aveva solo un anno. Paolo, 71enne, era il più anziano. Persone normali la cui unica colpa era stata quella di salire sull’aereo diventando così, loro malgrado, i protagonisti di una tragedia dai contorni mai chiariti, ancora oggi senza colpevoli. Riaffioreranno dal Tirreno solo 42 corpi, su 81. Quelli non restituiti immediatamente dal mare non verranno più ritrovati. Mai più.

Ma che cosa è accaduto realmente?

A quel punto solo i detriti dell’aereo potevano aiutare a far luce sulla vicenda, ma recuperarlo dalla profondità di oltre 3mila e 500 metri in cui si era inabissato  sembra quasi “impossibile”.

Solo molto tempo dopo, in due distinte operazioni nel 1987 e nel 1991, tutti i tasselli del puzzle vennero messi al loro posto, ma mancava sempre qualcosa, sempre. Il DC-9 dell’Itavia è stato ricostruito pezzo per pezzo in un hangar dell’aeroporto militare di Pratica di Mare. Mettendo insieme i resti riportati a galla per tentare di ricostruire quella notte, apparentemente tranquilla, di giugno.

Tante le ipotesi paventate, almeno quattro le principali: forse l’origine del disastro doveva essere cercata in un cedimento strutturale, ma le prime perizie avevano permesso di chiarire che l’aereo non aveva nessun problema tecnico.

E allora? Forse era precipitato dopo essere entrato in collisione con un altro aereo in volo. Oppure il DC-9 era stato abbattuto da un missile aria-aria sparato da un aereo militare? L’ultima ipotesi parlava una esplosione di una bomba piazzata a bordo.

Le ultime parole prima del disastro

“È caduto un Dc9 lungo la rotta che porta da Bologna-Palermo”.

“A lei chi gliel’ha detto che è caduto?”.

“Guardi, questo qui doveva atterrare già alle 9.13 su Palermo”.

“Ma chi gliel’ha detto che è caduto? “Io penso che sia caduto”.

È la telefonata drammatica qualche minuto prima delle 21.30 tra Giovanni Smelzo, tenente del soccorso aeronautico di Martina Franca che si accorge dell’incidente e il maresciallo Antonio Berardi, di turno allo Stato maggiore di Roma.

Inizia con queste parole una tragedia senza colpevoli. Anzi, il disastro è legato ad un «gua» pronunciato da uno dei piloti, rimasto per anni uno dei tanti fatti inspiegabili. Quando la traccia incisa nel Cockpit Voice Recorder (la seconda scatola nera che ‘ascolta’ le comunicazioni tra i piloti e quelle terra-bordo-terra) è stata ripulita, la verità, almeno quella è venuta a galla. Proprio nel momento in cui la registrazione sta per interrompersi bruscamente, viene pronuncia la frase «Guarda cos’è?».

Le morti ‘sospette’

È difficile riassumere anni e anni di ricostruzioni, di depistaggi, di verità accertate o cadute nel vuoto, di ipotesi. È difficile costruire certezze sui tanti «non ricordo» che hanno rappresentato un mistero nel mistero. È difficile non pensare che esistono almeno una quindicina di morti “sospette” legate alla strage di Ustica tra cui quella del maresciallo, Franco Parisi trovato impiccato ad un albero in una campagna di sua proprietà alla periferia di Lecce, il 21 dicembre 1995.

Il sottufficiale dell’Aeronautica militare prestava servizio nella base radar di Otranto, ma quella notte del 27 giugno 1980, non era in servizio. Era ‘presente’, invece, la mattina del 18 luglio 1980, quando sui Monti della Sila (Calabria) vennero ritrovati i resti di un aereo di fabbricazione sovietica – un MiG-23MS – ma di appartenenza libica. Non venne mai stabilito con esattezza quando cadde realmente l’aereo, forse per mancanza di benzina. Dall’autopsia sul pilota risultò che probabilmente era morto almeno 15 giorni prima. Parisi fu interrogato per dodici ore dal giudice Rosario Priore, ma la sua versione su quella notte non convinse del tutto. Per questo fu convocato a Roma, ma a Piazzale Clodio, dove era fissato l’incontro, non arrivò mai. Si era tolto la vita qualche giorno dopo aver ricevuto la convocazione. Qualcuno dice da quando fu ascoltato “non era più un uomo tranquillo”.

C’è anche un altro giallo, un’altra morte sospetta che non entrò a far parte delle pagine dell’inchiesta strage del Dc9. Quella del maresciallo dell’Arma azzurra, Antonio che prestava servizio nella base aerea di Otranto, ma non al radar. Le lancette dell’orologio avevano da poco segnato le 14.00 del 13 novembre 1992 quando a pochi chilometri dalla base, sulla provinciale Minervino-Palmariggi, il maresciallo perse il controllo della sua Renault 9. La macchina uscì fuori strada e andò a sbattere contro un ulivo. Una “tragedia” disse la famiglia, ma qualcosa in quell’incidente non ha mai convinto.

Il maresciallo è stato descritto da amici e colleghi come una persona tranquilla, “molto prudente” che non superava mai gli ottanta all’ora. Di solito non andava a lavoro in macchina, ma quel giorno sì. Non solo, la Renault non fu mai controllata né fu eseguita un’autopsia per stabilire se prima dell’impatto l’uomo avesse avuto un malore.

La strage di Ustica è un mistero che da anni si sta cercando di ricostruire. Non tanto per una disperata ricerca della verità, quanto per la doverosa necessità di dare finalmente giustizia a quelle 81 persone che per puro caso erano su quel volo e ai loro familiari che attendono ancora risposte. Perché è inaccettabile che la verità si sia inabissata, in fondo al mare, insieme a quell’aereo.



In questo articolo: