A proposito del referendum ‘antitrivelle’: senso civico e senso cinico

Pubblichiamo l’opinione di Enrico Mauro, ricercatore di diritto aministrativo presso l’Università del Salento, in merito all’esito dell’ultimo referendum abrogativo che ha visto andare al voto soltanto il 30% circa degli italiani aventi diritto.

Il referendum «antitrivelle» non ha raggiunto il quorum. A mente fredda può essere non completamente inutile una riflessione per la democrazia referendaria del futuro.
 
Tra i diversi motivi per i quali i più non sono andati a votare probabilmente non è stato dei meno importanti il suggerimento di non andarci elargito da alte cariche dello Stato: in particolare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’ex due volte Presidente della Repubblica, ora Senatore a vita. Il Presidente del Consiglio, lungi dal limitarsi a suggerire di non votare, ha tenuto ‘lezioni’ mediatiche di diritto ‘costituzionale’ sul significato del non-voto. L’intervento dell’ex Presidente della Repubblica è stato mediaticamente meno efficace, ma – moralmente, educativamente, civicamente – più grave, più cinico.
 
Cosa dice la Costituzione? Le disposizioni tirate in ballo nel dibattito che ha preceduto il voto sono principalmente le seguenti. L’articolo 48, comma 2, recita: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». L’articolo 75, comma 4, è così formulato: «La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi».
 
Ora, da un lato, è verissimo che «dovere civico» è diverso da «dovere giuridico». Ma nessuno mette in dubbio che non si tratta di un dovere giuridicamente sanzionabile. Tuttavia si tratta, secondo la Costituzione, di un «dovere», vale a dire di un’azione il cui compimento – politicamente, moralmente, civicamente – non ha lo stesso valore del suo non-compimento. E, fermo restando che il cittadino può liberamente scegliere, dal punto di vista giuridico, se votare o non votare, l’alta carica dello Stato non può – moralmente, educativamente, civicamente – suggerire indifferentemente di votare o di non votare.
 
Dall’altro lato, le alte cariche dello stato che hanno ‘legittimato’ il non-voto si sono concentrate, come avrebbero fatto i peggiori sofisti ateniesi del V secolo a.C, sull’articolo 75, contenuto nella seconda parte della Costituzione, che prescrive quale deve essere e come deve funzionare l’architettura istituzionale; mentre hanno completamente snobbato l’articolo 48, contenuto nella prima parte, in cui sono sanciti diritti e doveri dell’uomo e del cittadino. Ma non è necessario essere giuristi o filosofi per sapere che i testi si interpretano gli uni per mezzo degli altri: per i giuristi si tratta di interpretazione sistematica, per i filosofi di circolo ermeneutico, per tutti gli altri di onestà intellettuale, che agli aspiranti statisti non dovrebbe fare totalmente difetto.
 
Non solo. Le alte cariche dello Stato hanno fatto dire all’articolo 75 ciò che assolutamente non dice: che andare a votare o non andarci pari sono. Mentre l’articolo 75 si limita a dettare una norma organizzativa, secondo cui la proposta referendaria non è approvata senza il quorum.

Come accade spesso, in definitiva, si è letta la prima parte della Costituzione – la carta dei diritti e dei doveri – alla luce della seconda – la forma di governo -, anziché viceversa; si sono letti i fini delineati nella prima parte alla luce dei mezzi delineati nella seconda, anziché viceversa.
 
Sicché, se si volesse trarre un insegnamento da quanto accaduto, lo si potrebbe brevemente articolare come in questi termini. La Costituzione, nella prima parte, disegna la società in cui vorremmo vivere: lavoro, solidarietà, uguaglianza, partecipazione, libertà ecc. Mentre, nella seconda parte, disegna procedure e strutture attraverso le quali dovremmo costruire quella società: Camere parlamentari, salvaguardia delle minoranze dalla prepotenza della maggioranza, referendum, Presidente della Repubblica primo custode della Costituzione, Corte costituzionale ecc. Potremmo iniziare – sarebbe tardi, visto che la Costituzione sta per compiere settant’anni, ma forse non troppo – a mettere al centro del discorso pubblico i valori, i fini, i principi costituzionali e a subordinare a questi i meccanismi, i dispositivi, gli ingranaggi costituzionali (quando si parte per un viaggio, il centro del discorso è la meta; il mezzo di trasporto è questione subordinata alla prima).

A maggior ragione perché non è del tutto certo che abbiamo bisogno di istituzioni più rapide e non più riflessive; che abbiamo bisogno di più leggi e non di meno leggi fatte meglio; che abbiamo bisogno di più poteri concentrati in capo a poche istituzioni e non di più contropoteri a guardia di una democrazia sempre precaria, come mostrato, da ultimo, dalla scarsa affluenza alle urne fomentata dalle stesse alte cariche dello Stato che dovrebbero essere i primi educatori del popolo alla democrazia anche diretta.

L’editoriale di Enrico Mauro



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