Per i dottori sono sana, ma non posso adottare un figlio. Il dramma di una giovane donna che vuole diventare mamma


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Abbiamo deciso di usare un nome di fantasia per raccontare la sua storia. Lei, da donna coraggiosa che ha vissuto sulla sua pelle il dolore, non ha esitato neanche un secondo a dire “usate il mio nome e cognome”, ma la delicatezza dell’argomento e le parole toccanti che ha pronunciato ci hanno spinto in qualche modo a proteggere la sua privacy, a rispettare un’intimità sbattuta in prima pagina per denunciare cosa è costretta a vivere una donna a cui è stato negato il diritto di diventare mamma.

Quello di avere un figlio è il sogno di ogni ragazza legata ai valori tradizionali della famiglia: “mi sono sposata, ho costruito una casa per riempirla di bambini – ha detto – ma la vita ti porta a fare delle scelte e subirne delle altre che tu non hai voluto”.

Margherita, così la chiameremo, coltivava da sempre il desidero di avere un figlio, fino a quando non ha dovuto combattere contro un tumore all’utero che l’ha portata fino a Milano per cercare di salvare in tutti i modi quella che per nove mesi sarebbe stata la culla del suo bambino. Non ce l’ha fatta, perché l’endometrio era ormai compromesso e i medici di un noto ospedale lombardo hanno deciso di operarla. “Mi hanno fatto fare un ciclo di radioterapia, ma solo per sicurezza perché nessun altro organo era stato compromesso” puntualizza. Può sembrare una beffa, ma i medici stessi hanno definito quel male “buono”. Una precisazione “doverosa” che, inizialmente, non comprendiamo. È lei stessa a spiegare il perché, quando ci racconta di aver deciso di intraprendere la strada dell’adozione per non rinunciare al suo sogno e permettere al cancro di vincere, anche se lo aveva sconfitto a livello medico.

“Per i dottori sono sana, sono uguale a tutte le altre donne, ma la mia domanda di adozione è stata rifiutata”.  Ha tollerato un iter lunghissimo, è stata “sotto osservazione” per mesi, hanno indagato su ogni sfumatura della sua vita privata, dal conto in banca all’abitazione che doveva essere a misura di bambino, ma nonostante sia stata dichiarata «idonea» lei non può portare a termine il progetto. Il motivo sta in una “prassi” che considera discriminante, oltre che umiliante dopo tutto quello che aveva già passato.

“Se non trascorrono cinque anni, per i giudici non sei guarita. Non c’è una legge che lo impone – spiega – ma è così”. Non bastano le cartelle cliniche, non bastano i pareri dei medici che hanno considerato il suo “male” a bassissima possibilità di recidiva, Margherita e suo marito non possono diventare genitori.

Ammette di essersi arresa, Margherita, di essersi sentita abbandonata in una battaglia troppo grande, soprattutto quando la strada intrapresa è quella internazionale perché la “nazionale è impercorribile, impraticabile”.

“Sono scoraggiata – dice con le lacrime agli occhi – perché pensavo che avrei potuto donare il mio amore ad un bambino che ne ha bisogno. Ero disposta ad accogliere in casa anche dei fratelli perché non volevo che soffrissero nel momento in cui si sarebbero dovuti separare e invece devo affrontare un’altra batosta”.

Non punta il dito contro l’iter, Margherita anche se non capisce come mai non si acceleri un percorso che può regalare soltanto gioia. Lei ha visto con i suoi occhi cosa provano i bambini chiusi in orfanotrofio in attesa che qualcuno li adotti e la speranza che si infrange ogni volta che una pratica viene archiviata. Ce l’ha con il fatto che una donna a tutti gli effetti sana, guarita da ogni malattia, debba aspettare cinque anni. “Sulla base di cosa viene applicata questa discriminazione? – si chiede – Una donna sana a cui è stato detto di sì non ha le stesse probabilità di ammalarsi come è successo a me? Perché si gioca così sulla vita delle persone?”

Ci lascia con questo interrogativo Margherita, una domanda che noi giriamo a tutti voi sperando di smuovere qualche coscienza, oggi forse fin troppo sopita. In fondo, quello che chiede questa donna è solo di poter essere chiamata mamma.