L’offensiva turca in Siria ha suscitato un’immediata e generalizzata convergenza di solidarietà nei confronti del popolo curdo e di sdegno verso gli Stati Uniti per l’inatteso e quantomeno intempestivo ritiro delle forze armate dall’area.
I voltagabbana non riscuotono la simpatia dell’opinione pubblica, ma la Realpolitik a sua volta, si sa, non si cura delle spicciole emozioni. Eppure le intenzioni del grande Burattinaio americano potrebbero essere ancor più sottili di quanto non ci si immagini.
E se fosse tutto un bluff?
A insinuare il sospetto è la tipologia dei proclami di Donald Trump all’indomani del tradimento verso i curdi. Si tratta di giustificazioni che chiamano la risposta ridanciana e il ritornello dell’ormai abituale rappresentazione del presidente degli Stati Uniti come di un buffone pronto a far voce a vanvera.
Affermare che i curdi non meritano di essere protetti perché non contribuirono allo sbarco in Normandia nel lontano 1944 equivale a una battuta da bar. E rivendicare che gli Stati Uniti non si debbano occupare di piccole beghe fra tribù mediorientali induce a ilarità da paradosso storico per via dell’attenzione da sempre spasmodica degli stessi per la situazione geopolitica di quella regione. E allora, è davvero possibile che l’amministrazione americana abbia lasciato che una mossa militare così forte potesse essere banalizzata in questi termini? E se invece il carattere grottesco di quelle esternazioni non è altro che la mascheratura di un gioco più grande?
In questi ultimi anni, almeno dal 2016, le relazioni fra gli Stati Uniti e la Turchia si sono fatte agitate per ragioni di varia natura. La protezione e la mancata estradizione di Fethullah Gülen prima e dopo il presunto o reale colpo di Stato in Turchia del 2016 è soltanto l’incidente di facciata di una tensione resa vividissima dai frequenti bilaterali tra Erdogan e Putin finalizzati a contratti di partnership di natura militare e genericamente economica.
A questo bisogna aggiungere le insofferenze di Washington per i rapporti cordiali che il presidente turco intrattiene con l’odiatissimo Iran di Hassan Rouhani e viceversa le relazioni tesissime di Ankara con i sauditi, che da parte loro sono invece i principali alleati degli Stati Uniti nell’area mediorientale.
Ora, considerato tutto questo, nonché il repentino, inaspettato e altrettanto apparentemente risibile ammonimento dell’ultima ora di Trump alla Turchia contro un’azione militare prevedibile e annunciata, viene da domandarsi se il ritiro dei soldati americani non possa essere stato proprio una lucidissima mossa per indurre Erdogan esattamente alla guerra, prevedendone i risvolti: ovvero lo scatenarsi di una riprovazione generalizzata da parte dell’Onu, dell’Unione Europea, dell’opinione pubblica intera ai fini di una progressiva delegittimazione del presidente turco e di una destabilizzazione della sua leadership interna.
Del resto, come mostrano le ultime ore, all’isolamento morale sta facendo un rapido seguito l’embargo militare da parte di alcuni Paesi europei. Se così fosse, sarebbe un’azione di riassestamento dell’ordine geopolitico giocata crudelmente sulla pelle dei curdi. Ma la spregiudicatezza degli Stati Uniti d’America è da sempre adusa anche a queste manovre.