
Il mondo della Formula1 non potrà mai dimenticare Niki Lauda, uno dei piloti che hanno scritto la storia delle monoposto non solo per i tre mondiali conquistati, ma per la sua bravura a tratti ineguagliabile. Sangue freddo in pista e precisione al volante, che gli valsero il soprannome di «computer», erano i suoi tratti distintivi. Calcolatore, capace di scovare anche il più piccolo difetto delle vetture che guidava – tanto che una volta disse a Enzo Ferrari “questa macchina è una merda”, cosa che nessuno aveva mai osato fare – ha un carattere freddo e riservato. Totalmente diverso da James Hunt, il pilota britannico suo eterno rivale come raccontato, pur con qualche licenza cinematografica, da Ron Howard nel film Rush.
Il cuore di Lauda si è fermato il 20 maggio 2019, ma la data che gli ha cambiato la vita per sempre è quella del 1° agosto, quando rimaste coinvolto in un bruttissimo incidente sul vecchio circuito di Nurburgring che segnò la sua carriera, ma non gli impedì di continuare a correre e a vincere. C’è solo un prima e un dopo l’incendio che gli ha lasciato segni indelebili sul volto e sul corpo, ma non nell’anima.
L’inferno alla curva Bergwerk
La pioggia scesa copiosa pochi minuti prima della partenza aveva rischiato di fermare il Gran Premio di Germania, ma la gara andò avanti, nonostante le rimostranze di alcuni piloti, tra cui quelle del campione austriaco che chiese, invano, una sospensione della gara, considerando quei 23km di tracciato, “pericoloso” in condizioni perfette, “troppo rischioso”. All’epoca il rischio era un compagno inseparabile in pista, ma nessuno immaginava che la morte si sarebbe presentata al terzo giro.
Alla curva Bergwerk, ancora bagnata, Niki Luada perse il controllo della monoposto, anche a causa della scarsa aderenza delle gomme slick, ancora fredde, che aveva montato quando il sole aveva iniziato ad asciugare il circuito. La Ferrari senza controllo colpì una roccia a lato del circuito e finì la corsa in mezzo alla pista. La fuoriuscita di benzina fu fatale.
La vettura prese fuoco e il pilota, cha aveva perso il casco nell’impatto a 200 all’ora, rimase intrappolato per 55 lunghissimi secondi. A salvarlo furono i suoi colleghi: Harald Ertl, Guy Edwards, Brett Lunger e Arturo Merzario che riuscì ad estrarre l’austriaco dall’abitacolo. Le sue condizioni erano disperate. All’ospedale pare sia stato chiamato un prete per dargli l’estrema unzione. Sembrava spacciato, ma riuscì a farcela. “Non volevo morire, volevo continuare a vivere” disse.
Il ritorno a Monza 42 giorni dopo l’incidente
Lauda restò tra la vita e la morte per quattro lunghissimi giorni. I tifosi con il fiato sospeso attendevano gli aggiornamenti fino a quando non fu dichiarato fuori pericolo. Il suo cammino sarebbe stato difficile, ma non avrebbe mai lasciato vincere il suo avversario senza combattere e 42 giorni dopo l’incidente si presentò ai box, pronto a correre il Gran Premio d’Italia. Provava un dolore lancinante ogni volta che indossava e toglieva il casco, modificato per l’ occasione, ma lui voleva tornare in pista. A chi gli aveva chiesto spiegazioni rispose che «l’auto si guida con il sedere e non con la faccia».
Il ricordo del rogo in cui ha rischiato la vita lo ha portato indelebile sul viso. Fu allora che cominciò a indossare il cappellino che diventerà il suo “segno di riconoscimento” anche a distanza di anni dall’incidente. Serviva a tenere ferme le bende che, più di qualcuno, vedeva sempre piene di sangue.
Vincere il mondiale era il suo chiodo fisso, ma non ci riuscì quell’anno. A Fuji, ultimo Gran Premio del Mondiale 1976, decide di fermarsi per non rischiare ancora in un circuito che la pioggia torrenziale aveva reso pericoloso. Un gesto coraggioso e umano, un modo per non sfidare ancora la sorte dopo la tragedia sfiorata solo qualche mese prima. Il comuter aveva mostrato, con quel gesto di coraggio, il suo lato umano. Hunt vinse così l’unico titolo mondiale della sua carriera.
Daniele Audetto direttore sportivo della Ferrari in quegli anni, in un’ intervista ad Autosprint del 2017 ha dato una ricostruzione diversa. Pare ci fosse un accordo tra scuderie: dopo qualche giro per fare contenta la tv si sarebbero dovuti fermare tutti ai box.
«La colpa fu mia perché quando (Lauda) si presentò al box avrei dovuto ordinargli di tornare in pista e fermarsi solo dopo che ai box sarebbe rientrato Hunt. Lui non avrebbe potuto dirmi di no davanti al mondo perché ero il suo superiore. Ma non ebbi cuore di infierire su Niki appena lo vidi fermo mi rivenne in mente il suo volto distrutto nell’ infermeria del Nürburgring. Se lo avessi rispedito in pista, dopo cinque giri avrebbe trovato condizioni ideali perché stava smettendo di piovere. Ma ho fatto una scelta umana e non spietata. Non me ne sono mai pentito, ma a ripensarci adesso dico che è stata una grande lezione di vita: se al posto mio ci fosse stato un uomo più freddo e spietato, Lauda avrebbe vinto il suo secondo Mondiale consecutivo».
Vinse altre due volte nel 1977 e nel 1984.