Notte della Taranta, concertone senza “anema né core”


Condividi su

Ogni anno, l’ultimo sabato di agosto, la Notte della Taranta trasforma Melpignano in un palcoscenico a cielo aperto. Calato il sipario, quando il rumore dei tamburelli si dissolve alle prime luci dell’alba, una domanda torna ad essere protagonista: ci è piaciuta questa edizione?

Le critiche alla contaminazione, anche se vecchie, tornano a farsi sentire e quest’anno sono più forti che mai. L’accusa di tradimento della cultura salentina non è nuova, ha sempre accompagnato l’evento capace di richiamare migliaia di persone al ritmo della taranta, salvo poi ricordare una volta che le luci sono spente che era nata per alleviare il dolore, per confortare i malesseri dell’anima, per curare il veleno, la marginalità. C’è chi dice che la pizzica non appartiene più solo al Salento, ma al mondo intero. Allora la libertà di ballare e di suonare ha come costo la perdita del sapore della nostra memoria? La risposta, per chi conosce davvero il Salento e la sua storia, non può che essere amara.

Il risultato della contaminazione non piace a tutti. Un pizzico di rap, una spolverata di elettronica, qualche star della canzone pop. Tutto bellissimo, tutto modernissimo. Ma alla fine la sensazione è una sola: la pizzica è usata come spezia, non come piatto principale.

La Notte della Taranta è, senza dubbio, un volano economico potentissimo. Ma attenzione: il turismo è una benedizione solo se non diventa una maledizione culturale. Perché se la pizzica diventa “colonna sonora da Instagram”, se il Salento si riduce a un brand, allora non stiamo più raccontando la nostra storia. Stiamo semplicemente vendendo un prodotto confezionato, senza anima né cuore, pronto da consumare e da dimenticare fino al prossimo appuntamento.

Senza anema né core. Questo è anche il cuore della riflessione di Dario Stefano. L’ex senatore ha affidato ai social un commento sulla manifestazione pensata dal maestro concertatore David Krakauer. “Il concertone – scrive – ha lasciato più perplessità che emozioni. Non per colpa della musica, che resta potente e viva, ma per alcune scelte che consolidano una ‘direzione artistica’ ma rischiano di allontanare il festival dalla sua anima più autentica. Una notte che è sembrata senza “anema” né “core”, per dirla alla Serena Brancale”.

L’anima della Notte della Taranta, ricorda Stefano “è il fuoco che divampa nei tamburelli, il sudore che si mescola alla gioia, il canto antico che diventa moderno senza perdere la sua radice. La piazza si accende di pizzica, e la pizzica è liberazione, è rito, è un vortice che trascina i corpi e le anime. Le mani si intrecciano, i piedi battono a terra come a risvegliare una memoria millenaria. C’è chi balla per gioco, chi per amore, chi per esorcizzare un dolore, ma tutti ballano per sentirsi vivi”.

E in effetti, qualcosa quest’anno è mancato. La direzione artistica di David Krakauer, pur nobile, non ha acceso il fuoco. Neppure la conduzione ha aiutato: Ema Stokholma, elegante ma distante, più annunciatore che narratrice, ha tolto calore a un racconto che vive invece di emozione e partecipazione.

La Notte della Taranta – conclude l’ex senatore – non è nata per rincorrere audience o palinsesti televisivi, ma per spaccare confini, liberare energie, dare voce e corpo a un popolo e alla sua cultura. Per contaminarsi e contaminare, certo, ma senza mai perdere l’anima. Se si continua su questa strada, il rischio è che la Notte della Taranta finisca per perdere proprio ciò che l’ha resa unica: la sua anima.

E allora la domanda resta sospesa: vogliamo una Taranta che commuova e guarisca, o ci accontentiamo di una Taranta che intrattenga e venda? La domanda resta, ostinata, ogni anno la stessa: vogliamo una Notte della Taranta che faccia spettacolo, o una che faccia storia? Una Taranta che riempia alberghi o una Taranta che riempia anime?
Perché, se scegliamo solo la prima strada, rischiamo di smarrire per sempre la seconda.