15 minuti per mettere fine alla carriera criminale di Totò Riina, il ‘Capo dei Capi’

Dopo quasi 25 anni di indisturbata latitanza, Totò Riina è stato arrestato dai carabinieri del Ros, a Palermo. A dare il segnale agli uomini del comandante Ultimo Balduccio Di Maggio, tra i pochi in grado di riconoscerlo.

15 gennaio 1993, una data storica. Era un venerdì mattina quando Totò Riina, il capo dei capi latitante da quasi 25 anni, fu arrestato sulla circonvallazione di Palermo, ad un incrocio in via Bernini. U curtu come veniva chiamato per via della sua altezza (di appena 158 cm) fu catturato dal Crimor, una squadra speciale dei ROS (acronimo di Raggruppamento Operativo Speciale) guidata dal Capitano Ultimo e dall’allora colonnello Mario Mori. Quindici minuti, tanto è durato il blitz per mettere fine alla carriera criminale della “belva senza cuore”. Un’ora dopo, il re dei Corleonesi era in caserma fotografato sotto la foto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, una delle sue vittime eccellenti.

Sono le 8.28 almeno così scrivevano i giornali, non un minuto di più, non uno di meno. Per 23 anni, sei mesi e otto giorni, Riina si era nascosto fino a quando l’anonima utilitaria guidata da Salvatore Biondino con a bordo “u curtu” in persona è stata bloccata, per uno strano caso del destino, poco distante da quel marciapiede dove quindici anni prima fece assassinare Beppe Di Cristina, “la tigre”, ucciso il 30 maggio 1978 alla fermata di un autobus, in Via Leonardo Da Vinci, solo perché sospettato di essere un “confidente”.

Di soprannomi Riina ne ha collezionati tanti. All’epoca tutti lo chiamavano “zu Totò”, e fu proprio da quel brutale assassinio che partì la sua scalata a Cosa Nostra, che finì con gli anni per diventare Cosa sua. Preso, proprio lì dove è diventato capo, a meno di un anno dalla strage di Capaci. La cattura dell’uomo simbolo della stagione stragista dimostrava a tutti che Falcone, Borsellino, Chinnici e tanti altri non erano morti né soli né invano.

I misteri della cattura del padrino

Doveva essere, e in parte lo è stato, l’arresto del secolo, ma quella clamorosa cattura
che ha scritto una pagina importante nella storia della lotta alla mafia è stata ben presto coperta da ombre, buchi neri, interrogativi che non hanno mai trovato risposta.Tanti sono, ancora oggi, i misteri che circolano dietro quell’operazione da manuale, uno su tutti: chi ha contribuito alla cattura di uno dei criminali più temuti degli ultimi tempi? Un grande lavoro di intelligence durato, si dice, almeno cento giorni? Oppure, furono decisive le rivelazioni dell’ex autista di Riina, Baldassarre Di Maggio, detto Balduccio?

Di Maggio non era certo uno qualunque, anzi. È quel pentito “eccellente” passato alla storia anche per aver descritto la scena del famigerato bacio di Riina e Giulio Andreotti. I carabinieri lo avevano beccato qualche giorno prima, il 9 gennaio 1993, a Novara, con una pistola in tasca. Sarebbe stato lui a “cantare” la sera stessa del suo arresto, a riconoscere la moglie del boss, Ninetta e i quattro figli, Maria Concetta, Giovanni, Giuseppe Salvatore e Lucia. E sarebbe stato sempre lui, la mattina del 15 gennaio, a identificare Riina dentro la Citroen ZX e fare un segnale a Ultimo, che aveva “girato a vuoto” fino all’arrivo di Balduccio. Il Capitano, infatti, non avrebbe mai potuto riconoscere Riina con una sola foto a disposizione, vecchia di 23 anni.

Ma c’è anche chi, fra i pentiti, sostiene che tutto sia nato da una soffiata di un confidente del maresciallo Antonino Lombardo, poi suicida. Versioni contrastanti, a cui si aggiungono altre interpretazioni. Per Giovanni Brusca il tradimento arrivò da Totò Cancemi, per Bagarella da Francesco Lojacono, un fedelissimo di Bernardo Provenzano stanco della linea sanguinaria assunta dal “concorrente” ai vertici della mafia.

In quindici anni, Totò Riina aveva attaccato lo Stato come nessun altro mafioso aveva mai osato prima: aveva ucciso magistrati, politici, giornalisti, poliziotti, uomini delle forze dell’ordine. Aveva modificato il Dna dell’organizzazione e con la strage di Capaci prima e con l’uccisione del giudice Borsellino, poi era riuscito dove tutti gli altri avevano fallito, in primis lo Stato: portare alla rovina Cosa Nostra.

Fu “lu Zu Binnu” secondo Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, con tanto di mappe alla mano, a indicare ai carabinieri il nascondiglio del boss corleonese. Il motivo del tradimento? Ricondurre Cosa Nostra a quello che era sempre stata: una società segreta che si mischiava con gli altri e con le istituzioni, una setta invisibile che si adattava di volta in volta alle situazioni, che si infiltrava nella politica e nell’amministrazione, silenziosa, qualcosa che c’era e non c’era.

La storia della mancata perquisizione

Nell’intrigo di ombre e prolungati silenzi, si inserisce anche il veleno del covo. L’ultimo domicilio conosciuto del gran capo dei Corleonesi, quella villa con piscina all’interno del residence in via Bernini 54, nel quartiere Uditore di Palermo diventata oggi un simbolo della legalità, pare sia stata perquisita solo 18 giorni dopo l’arresto del padrino. Diranno che era scattata la cosiddetta strategia delle “foglie morte“, quella usata dal generale Dalla Chiesa quando veniva arrestato un terrorista: non fare una mossa e stare vedere cosa succede. Magari, durante l’osservazione nei paraggi, potrebbe materializzarsi Leoluca Bagarella, il cognato del capo dei capi. O Brusca, detto lo ‘scannacristiani.

Fatto è che quando gli investigatori entrarono nell’appartamento lasciato incustodito “qualcuno” aveva passato l’aspirapolvere, ridipinto le pareti, svuotato la cassaforte e portato via i mobili. Nulla era rimasto, un vuoto che ha alimentato la leggenda dell’archivio segreto di Riina contenente nomi, cognomi e trame degli ultimi trent’anni della storia d’Italia. Qualcuno dice che è finito nelle mani di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei grandi latitanti.

“Nessuno mi ha mai cercato”

Se gli dicevano che era latitante, Riina rispondeva che nessuno lo aveva mai cercato, facendo intendere di non aver mai avuto alcun problema a muoversi in clandestinità, come era abituato a fare dal lontano 1969.

Da quel 15 gennaio 1993 a Riina, ammanettato a un semaforo rosso in un blitz che sembrava un sequestro di persona, è stato sempre stato riservato il trattamento del 41 bis, con lunghi periodi di isolamento: fino al luglio del 1997 è stato rinchiuso nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna, poi nel carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno, a Opera, infine a Parma. Dal giorno del suo arresto non si è più riunita la Cupola, il governo della mafia. Così è rimasto in carica. Sono le loro regole. Formalmente è stato lui il capo dei capi fino al giorno della sua morte.

La morte del boss

Nato contadino e cresciuto assassino, Riina è morto il 17 novembre 2017 alle 3.37 nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma senza aver mai mostrato un cenno di pentimento. Il giorno prima, quando aveva compiuto 87 anni, era stato permesso ai familiari di stargli vicino. La vita di uno dei criminali più temuti e spietati della storia d’Italia era ormai giunta al capolinea. Per questo si era dibattuto a lungo sulla possibilità che il “capo dei capi” potesse uscire dal carcere per affrontare una “morte dignitosa”. Ormai ottantaseienne e provato da una serie di malattie gravi, secondo alcuni avrebbe meritato quel briciolo di umanità che ha sempre negato agli altri.

È rimasto muto fino alla fine, portandosi nella tomba tutti i segreti di cui era depositario. Venticinque ergastoli sono stati la massima punizione che lo Stato italiano gli ha dato.



In questo articolo: