L’America non dimentica, e nemmeno il mondo intero. Passano gli anni, ma l’11 settembre resta materia strettamente attuale. Se il cancro rappresentava il male del ventesimo secolo, ad oggi, nell’era del ventunesimo, si aggiunge quello di matrice terroristica. Non importa in nome di chi o di cosa si uccida: nessuno possiede il diritto di togliere la vita ad un’altra persona, qualsiasi sia il motivo: politico, religioso o altro.
Le ‘Torri Gemelle’ che crollano davanti ai nostri occhi attoniti, inermi e impotenti davanti ad un evento forse più grande di noi, non debbono recluderci nell’autocommiserazione. Serve agire, attivarsi. Bisogna lavorare insieme a cittadini, istituzioni e realtà associative per diffondere un messaggio fondamentale: la guerra va fermata.
Lo stesso Papa Francesco, riferendosi agli ultimi accadimenti (Gaza, Ucraina ecc…), in tempi non sospetti usò parole molto forti per descrivere l’attuale panorama contemporaneo (‘c’è una terza guerra mondiale in atto, ma non si vede perché combattuta a tratti’). E oggi, a 13 anni da quel deplorevole fatto, cosa è cambiato? A giudicare dalle orribili decapitazioni dei giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff, la risposta appare piuttosto scontata. Stando ad un sondaggio del Wall Street Journal/Nbc, un americano su due – in percentuali circa il 47% – è convinto che il suo paese sia meno sicuro di quanto non lo fosse prima dell’11 settembre stesso. Dato allarmante, soprattutto se confrontato con la statistica del 2002 (dunque ad appena un anno di distanza dallo schianto degli aerei) aggirante intorno al 20%. New York, purtroppo, pare sia destinata a rimanere nei pensieri dei terroristi ancora per molto.
L’aver giustiziato Osama Bin Laden – riconosciuto tra i principali autori di quella maledetta spedizione suicida – ha generato un odio ancor più profondo; anzi, le teste sono raddoppiate, se non triplicate. Proprio come l’idra, leggendario essere mitologico battuto da Eracle. Ma qui il paragone con l’antica Grecia regge sino ad un certo punto.
Siamo proprio sicuri che per fronteggiare l’Isis, o comunque le minacce Jihadiste in Iraq e Siria, vadano per forza compiute ‘dodici fatiche’ attraverso le armi? O andrebbe, al contrario, rafforzato il dialogo interreligioso? A questa domanda, però, non dovremmo avere noi la presunzione di rispondere; forse, tale compito spetta ai sopravvissuti dell’11 Settembre, se non a qualche madre privata ingiustamente del proprio figlio.