Un libro per l’estate: “Lolita” di Nabokov e la realtà dell’invenzione


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“…e poi, senza il minimo preavviso, un’azzurra onda marina si gonfiò sotto il mio cuore, e su una stuoia immersa in una polla di sole, seminuda, sdraiata, e poi in ginocchio, e poi voltata sulle ginocchia, ecco la mia innamorata della Costa Azzurra che mi squadrava al di sopra degli occhiali scuri”.

È questo il preciso momento, l’istante fulminante dell’estate del 1947, in cui Humbert Humbert vede per la prima volta la sua Lolita prendere il sole. Lolita dai calzini corti, dalle “tibie spudorate e innocenti”, Lolita che era “semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti” ma, stretta tra le braccia di Humbert, è solo Lolita.

Lolita. Prima parola di uno degli incipit letterari più belli che siano mai stati scritti, “luce della mia vita, fuoco dei miei lombi”, Lolita oggetto di una passione innominabile, passione che avvampa e brucia  e divora l’anima del povero Humbert, consumato nella carne, nei nervi, nelle ossa da un amore viscerale, folle, palpitante per una “ninfetta”, per quei polsi snelli e quelle gambe ossute, per gonne di bambina che si gonfiano al soffio del vento, strisce di “pelle luminosa tra la maglietta e i calzoncini bianchi da ginnastica”. E alla vista di tutto questo il cuore di Humbert inizia a “battere come un tamburo” e le immagini gli restano impresse nel sangue, ammalandolo, avvelenandolo in una furia di calore, di passione e di stupore.

Quando “Lolita” fu pubblicato per la prima volta, nel 1955, fu accolto da un coro di critiche indignate e proteste scandalizzate e Vladimir Nabokov fu accusato di aver scritto un libro malato e perverso. Ma, come specifica lo stesso autore (forse un po’ per difendersi dai feroci attacchi) nella Prefazione  presente, ormai, in tutte le edizioni, “Lolita non si porta dietro nessuna morale”. Lolita è letteratura. Lolita è piacere estetico, è bellezza in forma di linguaggio.  Lolita è mettersi in contatto con forme di curiosità, estasi, bontà, tenerezza. Anche paura. Paura di arrivare a esplorare il buio di un abisso, quello dell’anima, quello che cela i nostri impulsi, i nostri desideri profondi, i nostri pensieri che in superficie copriamo col rossore e l’imbarazzo, con la norma e la consuetudine, abbassando gli occhi, distogliendo lo sguardo. Lolita strappa ogni maschera e ogni velo, lasciandoci nudi di fronte a noi stessi e al nostro desiderio.

In una delle “Lezioni di letteratura” che tenne alla Cornell University, Nabokov diceva : “La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando “Al lupo, al lupo”: è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò “Al lupo, al lupo” senza avere nessun lupo alle calcagna. È del tutto incidentale che il poverino per aver mentito troppo spesso alla fine sia stato divorato da un lupo in carne e ossa. Il punto importante è che tra il lupo della prateria e il lupo della bugia esiste un intermediario scintillante: quell’intermediario, quel prisma, è l’arte della letteratura”.

Non è importante che il lupo esista o no. Il ragazzo aveva voluto inventarselo, quel lupo. Era un lupo fatto di fumo e di fantasia, di sogno e di immaginazione. È del tutto casuale che un giorno sia arrivato il lupo vero e che la realtà abbia, poi, fagocitato la finzione.  Lolita è letteratura e, in quanto letteratura, è invenzione. Non deve dire la verità, non deve fare moralismi. Deve piacere. E “Lolita” piace nel suo linguaggio elegante, elaborato, nelle sue descrizioni che provocano un filo di imbarazzo o un leggero batticuore nel petto di chi segue con lo sguardo il susseguirsi di parole sulla pagina. Non c’è scandalo, non c’è vergogna. C’è solo bellezza che si snoda per poco più di trecento pagine.