Lui, lei, l’altro…potrebbe essere raccontato così, con un triangolo di amore e morte, la storia di Farouk El Chourbagi, l’imprenditore egiziano con la fama da tombeur des femmes, ritrovato senza vita nel suo lussuoso ufficio in una traversa di via Veneto. Il caso, passato alla cronaca come l’omicidio che ha scosso la dolce vita romana, non è rimasto tra i faldoni dei delitti irrisolti, chiusi in un cassetto tra la polvere che ricopre quei misteri destinati ad essere cancellati dal tempo.
A togliere la vita al facoltoso 27enne era stata la sua amante Gabrielle Bebawi, detta Claire con l’aiuto del marito Youssef. Una coppia sulla strada della separazione, almeno così si mormorava all’epoca, che si era unita per commettere un delitto al vetriolo. Già, perché i due assassini non si erano accontentati di scaricare sulla vittima quattro proiettili di una calibro 7,65, ma sfigurarono il suo volto con l’acido. Non fu difficile risalire a loro.
L’omicidio di Farouk Chourbagi
Sesso, sangue, soldi. Gli ingredienti per diventare uno dei casi più seguiti nell’epoca della Dolce Vita c’erano tutti. Per capire, tocca riportare le lancette dell’orologio al 20 gennaio 1964. È un lunedì, la segretaria dell’azienda che si affaccia su via Lazio, va al lavoro come tutte le mattine, ma è preoccupata. Il proprietario della ditta, il bel nipote di un ex ministro del Tesoro egiziano, amante della bella vita, da giorni non risponde al telefono. Quando entra nell’appartamento al terzo piano scopre il corpo senza vita dell’industriale-playboy, ucciso con quattro colpi di pistola e con il viso sfigurato dal vetriolo. Le indagini si orientano subito sulla pista passionale, anche per la dinamica del delitto poteva essere stata una donna sedotta e abbandonata. Cherchez la femme, allora.
Ad indirizzare gli uomini in divisa sulla strada giusta è stata la segretaria. Qualche giorno prima aveva ascoltato una telefonata che aveva lasciato il suo capo alquanto scosso. Dall’altra parte del telefono c’era Claire, sua amante da almeno tre anni.
L’arresto dell’amante e del marito
Dopo la testimonianza della donna che aveva scoperto il cadavere, nelle mani degli inquirenti finisce il secondo pezzo del puzzle: il giorno dell’omicidio di Chourbagi, la coppia – che viveva a Losanna – si trovava a Roma. Non poteva essere “solo” una coincidenza come non lo era il fatto che la signora Bebawi aveva acquistato in Svizzera un flacone di vetriolo. Lo stesso acido con il quale era stato sfigurato Farouk. «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova», diceva Agatha Christie. Tant’è che i due finiscono in manette.
Durante l’interrogatorio parlano, ma le versioni di quel pomeriggio del 18 gennaio non coincidono. Il marito raccontò di aver accompagnato la moglie fino al portone del palazzo dove si trovava l’ufficio della vittima per un incontro risolutivo. Poco dopo la donna tornò raccontando al marito di aver sparato all’ex amante. Disse anche di aver intravisto la pistola e il flacone con l’acido vuoto. La moglie, dal canto suo, confermò di essere salita nell’ufficio, ma accusò il marito. Disse che era stato lui ad ucciderlo e a gettargli l’acido sul viso, mentre lei stava discutendo con Farouk. Sembra l’intricata storia di un romanzo giallo, soprattutto dopo le dichiarazioni di un’amica dell’imprenditore che aveva fatto alcune confidenze. Era lui che voleva mettere fine alla relazione con Claire perché si era innamorato di Patrizia De Blanck. Uno scandalo che finì su tutte le prime pagine dei giornali.
La condanna e la fuga all’estero
Se il caso ha fatto epoca, non è stato da meno il processo, ricco di lacrime, svenimenti, accuse e controaccuse. Con colpi di scena degni di un film hollywoodiano, il lunghissimo processo Bebawi racconterà la storia di una donna che voleva un amante senza rinunciare alla sua posizione sociale, la storia di un marito che voleva conservare la moglie, ma anche la sua onorabilità, e la storia di un giovane rampollo che frequentava tantissime donne, ne voleva una, ma era ossessionato da un’altra.
I due, che avevano giocato allo scaricabarile, furono assolti in primo grado per mancanza di prove. Condannati in appello a ventidue anni di carcere lui e vent’anni lei, non scontarono mai un giorno in cella. Erano fuggiti all’estero, ognuno per la propria strada, e fu impossibile chiedere l’estradizione, anche dopo la conferma delle condanne in Cassazione nel 1974.