Delitto di Giarre, la morte di Giorgio e Antonio che fece scoprire l’omofobia all’Italia


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Mano nella mano, quasi stretti in un ultimo abbraccio. Furono ritrovati così i corpi senza vita del venticinquenne Giorgio Agatino Giammona e del suo “zito” quindicenne Antonio Galatola. Era il 31 ottobre 1980. Oggi, i limoni, testimoni silenziosi di una tragedia, non ci sono più. Dei due ragazzi – i «puppi» come con disprezzo venivano chiamati gli omosessuali – si è quasi persa la memoria e anche del delitto di Giarre che sconvolse la Sicilia e l’Italia intera svelando i volti che poteva avere l’odio, l’omofobia, la vergogna e l’omertà non si parla quasi più. Eppure, due mesi dopo la morte dei fidanzati, per rispondere all’indifferenza, è nato il primo circolo Arci-gay da un’idea di Marco Bisceglia.

La scomparsa e il ritrovamento dei corpi dei fidanzati

Il 17 ottobre i due ragazzi svaniscono nel nulla. Le famiglie li cercano per due settimane, ma di Giorgio e Antonio non c’è traccia. Bisognerà aspettare il 31 ottobre per avere risposte. Un pastore che stava camminando per le campagne con il suo bastone in legno trova per caso i corpi distesi sotto un albero di pino in una tenuta agricola dei principi Grimaldi di Modica. Si tengono per mano, uniti in un abbraccio di amore e morte. I Carabinieri, giunti sul posto, non hanno dubbi: si tratta di suicidio. I due fidanzati si sarebbero tolti la vita consapevoli che il loro amore sarebbe stato impossibile. Stanchi delle dicerie della gente, dei pettegolezzi, dei tentativi di separarli avrebbero deciso di farla finita. «Avvelenati», questa la prima ricostruzione fatta dagli uomini in divisa e confermata da un biglietto ritrovato nella tasca di uno dei due. Un messaggio, reso quasi incomprensibile dall’umidità, una specie di addio alla vita.

La strada alla ricerca della verità, mai trovata, cambia quando furono esaminati i cadaveri. A quel punto si scopre che erano «morti sparati». Due colpi alla testa di Giorgio, uno a quella di Antonio. Non poteva che essere un omicidio-suicidio, ma qualcosa non torna. La pistola, una Bernardelli calibro 7,65, venne ritrovata non lontano dall’albero che aveva custodito per giorni i due corpi. Era ricoperta di terra e, cosa più strana, con la sicura inserita. Come ha potuto un morto seppellire la pistola dopo aver messo la sicura? A quel punto la via percorsa fino a quel momento imboccò il vicolo dell’omicidio.

«Vogliamo morire e tu ci devi sparare». La «confessione» del piccolo assassino

Ad essere accusato del delitto fu Francesco, il nipote di Antonio (sua madre è una sorella del ragazzo ucciso). Un bambino di 12 anni. Accompagnato dai familiari, si era presentato in Caserma, dove aveva «confessato» di essere stato lui a sparare. Aveva raccontato di averlo fatto perché glielo avevano ordinato Giorgio e Antonio. «Sì, li ho uccisi io. Li ho incontrati per caso più di dieci giorni fa. Mi dissero di seguirli in campagna. Volevano che li ammazzassi. Dissi subito di no, tremavo come una foglia, ma loro insistettero, minacciarono di ammazzarmi se non lo avessi fatto. “o ci uccidi o noi uccidiamo te”. Mi pareva di sognare. Temevo che mi avrebbero ammazzato».

«Mi hanno messo una pistola in mano e si sono sdraiati sull’erba, come per dormire. Io mi avvicinai e cominciai a premere il grilletto. Ho dovuto sparare alla testa, come mi avevano detto loro. Mi hanno dato un orologio, come ricompensa. Poi sotterrai l’arma e fuggii» disse il bambino.

“Derisi da tutto il paese due omosessuali siciliani si fanno uccidere da un ragazzo di 12 anni abbracciati” titolò il Corriere. Per la prima volta la cronaca italiana dovette occuparsi di una questione che all’epoca non aveva neppure un nome: l’omofobia.

Caso (mai) chiuso

Il caso è chiuso, ma la versione non convince nessuno. Ancor più quando, pochi giorni dopo, Francesco rivela ad un giornalista de quotidinano ‘L’Ora’ di Palermo di aver confessato perché i carabinieri lo avevano preso a schiaffi e gli avevano detto che avrebbero arrestato suo nonno. È un particolare interessante. Inizia a farsi strada il sospetto che si tratti di un delitto d’onore, per salvare il buon nome delle famiglie, per lavare la vergogna causata da due gay, ma si tratta solo di supposizioni. La verità non sarà mai scoperta.

Il «puppu cu’ bullu», il «ricchione patentato» come era stato etichettato Giorgio da quanto nel 1978, a sedici anni, era stato sorpreso dai Carabinieri in macchina con un ragazzo in atteggiamenti intimi, tanto che era scattata una denuncia per atti osceni, non c’era più. Antonio era andato via con lui. La loro unica colpa era stata quella di essersi amati alla luce del sole. Si frequentavano da un mese, da quando il 25enne aiutava Tony a vendere in giro giocattoli.

Giornalisti e telecamere che si recarono sul posto da tutta Italia per rendere nota la tragedia si scontrarono con l’omertà del paese, intimorito dall’idea di essere associato alla storia di una coppia omosessuale «Che vergogna. Penseranno a Giarre come al paese dei finocchi». Il funerale è già una sentenza. Duemila persone dietro al feretro del ragazzo di 15 anni, nessuno per Giorgio Giammona, «puppu cu’ bullu». Anche sulle tombe sono scritte due date diverse.

Stranizza d’amuri, il film

A rispolverare la memoria sarà “Stranizza d’amuri”, come il titolo della canzone di Franco Battiato, il film di Beppe Fiorello ispirato al delitto di Giarre.

«Da anni seguo con interesse un delitto accaduto in provincia di Catania alla fine degli anni ‘70 e per anni ho pensato che quella storia di un amore senza tempo, mai consumato e per sempre ricordato dovesse diventare un racconto. Mi sono affidato alla mia immaginazione per restituire al pubblico la memoria di quei due ragazzi che hanno pagato un prezzo troppo alto per essersi amati», ha dichiarato Beppe Fiorello per la prima volta dietro la macchina da presa.