«Avvocato!», così Fulvio Croce fu ucciso dalle Brigate Rosse

L’avvocato Fulvio Croce, ucciso con cinque colpi di pistola, era diventato un bersaglio perché aveva accettato la difesa d’ufficio dei capi storici delle Brigate rosse. L’omicidio fu rivendicato con una telefonata

28 aprile 1977. A Torino piove a dirotto, ma il temporale non basta a ‘nascondere’ il rumore degli spari che spezzano la tranquillità di quel pomeriggio di primavera e mettono fine alla vita dell’avvocato Fulvio Croce, colpito a morte a pochi passi da un palazzo d’epoca che ospitava il suo studio legale. L’orologio aveva da poco segnato le 3.00.

Il civilista aveva parcheggiato la sua auto davanti al portone dello stabile affacciato su via Perrone e stava camminando verso le scale, accompagnato dalle sue segretarie. Cappello in testa, sigaro in bocca e passo tranquillo sotto una pioggia scrosciante fino a quando non ascoltò un ragazzo gridare «Avvocato!». È ancora di spalle quando lo sconosciuto preme il grilletto di una Nagant di fabbricazione russa. Cinque colpi bastano a lasciarlo senza vita.

Ma quale era stata la colpa del Presidente dell’ordine degli avvocati di Torino? Croce avrebbe dovuto assistere i “capi storici” delle Brigate Rosse nel processo di Torino che aveva visto finire alla sbarra, tra gli altri, Renato Curcio, Alberto Franceschini, Paolo Maurizio Ferrari e Prospero Gallinari, finiti in manette. 46 imputati in tutto.

Una condanna a morte annunciata. Il messaggio dei terroristi era stato chiaro e non ammetteva eccezioni: chiunque avesse accettato di difenderli avrebbe pagato con la vita. Nessuno aveva avuto il coraggio di assumere l’incarico, mettendo in crisi il processo. Una regola però poteva sbloccare la situazione. Come prevedeva l’articolo 130 comma 2 dell’allora codice di procedura penale, nel caso di impossibilità di reperire altro difensore doveva essere nominato difensore d’ufficio il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. E Fulvio Croce accettò, per senso del dovere, per rispetto del ruolo istituzionale che ricopriva, diventando l’avvocato degli uomini che lo condannarono a morte. Fu ucciso per questo, cinque giorni prima della data fissata per l’udienza del processo. Il piombo minacciato in aula dagli imputati si era materializzato in via Perrone.

La strada tentata sollevando un’eccezione di incostituzionalità dell’art. 130 del codice di procedura penale, era stata vana. I brigatisti intendevano difendersi da soli? Bene, potevano farlo, come avviene negli Stati Uniti e in molti altri paesi. Era una tesi azzardata, ma poteva funzionare, se solo le Br non avessero alzato la posta. In quei giorni, infatti, fu ucciso Francesco Coco, assassinato con gli uomini della sua scorta, perché, coraggiosamente, aveva rifiutato lo ‘scambio’ proposto dalle Brigate Rosse: la scarcerazione dei detenuti per liberare Mario Sossi, il magistrato rapito.

Non si trovarono sei cittadini disposti a fare i giurati

Andare avanti non fu facile, per «l’impossibilità di costituire una giuria popolare». In tanti dichiarano la loro indisponibilità a prendere parte al processo. Sul tavolo del presidente si accumularono certificati medici, tutti che indicavano la stessa patologia, «sindrome depressiva». Una formula usata per nascondere il terrore.

Anche Eugenio Montale, in una intervista al Corriere della Sera, alla domanda se avrebbe fatto il giudice in quel processo, rispondeva che no, avrebbe avuto la stessa paura di tutti gli altri. Perché non si può chiedere a nessuno di essere un eroe. Alcuni giorni dopo, Italo Calvino, riprendendo l’articolo, citò i Promessi Sposi, nel punto in cui don Abbondio replica al cardinale Borromeo «Il coraggio, uno non se lo può dare», insomma, ma bisogna pur vincere la paura, era questo il senso.

Per arrivare a comporre l’intera giuria ci volle ancora un anno, fino a quando non fu ‘estratto’ il nome di Adelaide Aglietta, allora segretaria del Partito Radicale, che accettò l’incarico. E con lei altri 5 cittadini torinesi. All’udienza dell’8 marzo 1978, vennero nominati anche i nuovi avvocati d’ufficio, tra i quali si aggiunse volontariamente il nuovo presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino, Gian Vittorio Gabri. Nonostante le intimidazioni, erano rimasti al loro posto come garanti di un giusto processo.

Il 23 giugno il processo si concluse con 29 condanne e 15 assoluzioni. Nessuna «esemplare», ma lo Stato aveva vinto.

Il 20 febbraio 1980, fu arrestato a Torino e condannato il brigatista che ulrò «Avvocato!», in quel pomeriggio piovoso. Era stato lui a premere ildito sul grilletto della Nagant. Il palo morì pochi mesi dopo a Genova, in una sparatoria con la polizia. La complice, la ragazza che doveva allontanare le segretarie, venne fermata nello stesso anno, processata e condannata all’ergastolo.

Un copione usato ancora

16 novembre 1977. Sono le due del pomeriggio di un mercoledì d’autunno, quando il giornalista Carlo Casalegno, vice-direttore della Stampa, rientra a casa per pranzo. Dopo aver parcheggiato la sua auto, una Fiat 125, riesce a fare solo pochi, quando fu freddato da quattro colpi di pistola, sparati con il silenziatore, non lontano dal palazzo in cui abita.

Anche Casalegno, “pennivendolo di Stato”, era stato ucciso per impedire il processo con la stessa rivoltella di fabbricazione cecoslovacca usata nell’assassinio di Croce. Ce ne saranno altri, in quegli anni di piombo destinati al tramonto.



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