Giovanni Brusca, chi è il pentito dei 150 omicidi tornato libero

Dalla Strage di Capaci in cui morirono il Giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta all’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il bambino sciolto nell’acido. Chi è Giovanni Brusca, il più sanguinario boss di Cosa Nostra tornato libero.

È impossibile dimenticare il nome di Giovanni Brusca, il pentito di mafia protagonista di alcuni degli episodi più dolosi della storia di Italia. Fu lui, u verru (il porco, in siciliano), ad aver azionato il detonatore della bomba nella Strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Fu lui a premere il bottone del telecomando che fece esplodere i 500 kg di tritolo, forse di più. Una quantità impensabile “per non sbagliare l’attentatuni”. Suo il piano per eliminare Borsellino, erede morale di Falcone.

È stato sempre lui, il boss di San Giuseppe Jato, ad ordinare il rapimento e l’uccisione di Giuseppe Di Matteo, il bambino sciolto nell’acido per punire il padre Santino, “colpevole” di aver parlato troppo con i magistrati.

Responsabile di decine di omicidi, il braccio destro di Totò Riina è un uomo libero. Ha finito di scontare la sua pena. Ora può lasciarsi alle spalle le porte del carcere di Rebibbia dopo 25 anni passati in cella e quattro in libertà vigilata. Vivrà lontano dalla Sicilia, sotto falsa identità, grazie alla legge sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni Falcole che la riteneva uno strumento preziosissimo per smantellare la criminalità organizzata dall’interno. L’ex magistrato credeva fortemente che solo la collaborazione di un uomo integrato a Cosa Nostra potesse squarciare il velo sul suo funzionamento.

Il suo curriculum criminale è racchiuso in una sua frase, riportata nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone del giornalista Saverio Lodato: “Ho commesso e ordinato personalmente oltre 150 delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento”. E sul Giudice disse:

«Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato».

(Giovanni Brusca, dichiarazione tratta dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato, Mondadori)

Chi è Giovanni Brusca

Giovanni Brusca non è un criminale qualunque. Il suo nome rimarrà per sempre impresso grazie alla sua “fama” di assassino feroce. Fama che gli ha permesso di conquistare il soprannome di scannacristiani. Pare che abbia commesso il suo primo omicidio a 19 anni per conto del clan dei Corleonesi. Dalla sua aveva il peso della famiglia. Suo padre, Bernardo Brusca, capo della cosca di San Giuseppe Jato, è stato un autorevole esponente della Cupola. Giovanni ne aveva ereditato il “prestigio” mafioso. Ufficialmente ha raccontato nel suo libro di aver mosso i suoi primi passi come artificiere della strage in cui fu ucciso il giudice Rocco Chinnici. In realtà, i suoi primi tentativi di entrare nella criminalità che ‘conta’ furono ‘passi falsi’. Durante l’attentato al capitano dei carabinieri Emanuele Basile, ucciso a sangue freddo davanti agli occhi della moglie mentre tentava di proteggere, fecendo da scudo, la figlia di un anno e mezzo che teneva in braccio Brusca scappò con la 500 con cui doveva riportare i tre autori materiali dell’omicidio all’auto “pulita”. Rimasti a piedi, finirono in un agrumeto dove furono arrestati nonostante il tentativo di giustificarsi dicendo di avere avuto un appuntamento galante con tre signore sposate, di cui cavallerescamente non potevano fare i nomi.

È stato un personaggio talmente discusso che nemmeno i film e le fiction che hanno cercato di ricostruire le sue imprese criminali e il suo ‘pentimento’ gli hanno reso giustizia. Il soprannome “u verru”, “il porco”, se l’era guadagnato per la ferocia con cui massacrava i suoi nemici.

Dopo l’arresto di Salvatore Riina e Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano lo indica come nuovo capo dei Corleonesi, ma la carriera di uno dei boss più sanguinari termina nel 1996, quando fu arrestato nella sua villa affacciata sul mare di Cannatello (Agrigento), dove si trovava con la famiglia e il fratello Vincenzo. Stava guardando in tv il film “Giovanni Falcone” di Giuseppe Ferrara, all’epoca trasmesso da Canale 5.

Aveva 39 anni e un elenco interminabile di orrori alle spalle. Aveva assassinato, tra gli altri, il capo della Famiglia di Alcamo, Vincenzo Milazzo e, pochi giorni, aveva ordinato lo strangolamento anche della compagna, Antonella Bonomo, incinta di tre mesi.

“Alliberateve de lu cagnuleddu”

E del resto, come riuscire a raccontare senza provare dolore, anche a distanza di tanti anni, della morte di Giuseppe Di Matteo, il bambino che da grande sognava di fare il fantino. Per vendicare “il tradimento” del papà che aveva deciso di collaborare con la giustizia, aveva rapito il ragazzo, sperando di convincere in questo modo il padre a fare un passo indietro e ritrattare. Lo avevano avvicinato con una scusa, in un maneggio. Travestiti da uomini delle forze dell’Orine avevano promesso al 13enne di portarlo dal genitore, all’epoca sotto protezione, lontano da casa. «Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (…)» disse Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento.

Quando i tentativi di Cosa Nostra fallirono Brusca diede l’ordine; “Alliberateve de lu cagnuleddu”. Sbarazzarsi del cane. 779 giorni dopo il sequestro, il piccolo fu strangolato. Il suo corpo o quel che ne restava non vene mai trovato. Era stato sciolto nell’acido.

Non era vero che gli “uomini d’onore” rispettavano i bambini. La crudeltà che è toccata a Giuseppe si respira ancora nel casolare in contrada Giambascio che è stata la sua ultima prigione. C’è ancora la rete del letto sul quale il bambino era incatenato, nella stanza interrata raggiungibile solo attraverso un passaggio mobile.

Ha parlato da pentito senza esserlo (la sua collaborazione con la giustizia è stata ufficializzata “solo” nel 2000) e qualche volta ha anche fatto i conti con il suo passato. Una volta, con quell’aria di chi ha la verità in tasca, ha giurato di aver avuto una esitazione quel 23 maggio. Ha confessato anche di aver avuto dei rimorsi per ogni delitto, salvo aggiungere che “bisognava farlo”.

Ora dice di essere un uomo diverso, ma è impossibile sapere cosa sia rimasto dello scannacristiani, dell’uomo che ha detto, ma tanto ha taciuto.



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