Girolamo Tartaglione, l’omicidio del magistrato firmato dalle Brigate Rosse


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10 ottobre 1978. Era un martedì. L’orologio aveva da poco segnato le 14.00 quando Girolamo Tartaglione, all’epoca direttore generale degli Affari penali del Ministero di grazia e giustizia, fu ucciso dalle Brigate Rosse a pochi passi dalla sua abitazione. Ad attenderlo nel palazzo che si affacciava su via delle Milizie, nell’elegante quartiere Prati, c’erano anche due “sconosciuti” che non esitano a premere il grilletto, condannando a morte il magistrato gentiluomo.

Quei colpi di pistola, sparati a distanza ravvicinata, a bruciapelo, non lasciano scampo al 65enne napolatano che aveva rifiutato il pensionamento per continuare a lavorare sui temi a lui più cari: il reinserimento sociale degli ex-carcerati, il rafforzamento delle misure a favore delle famiglie dei detenuti, le misure penali alternative alla carcerazione per la piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione e della riforma carceraria varata nel 1975.

L’omicidio

Ad ordinare l’omicidio erano state le Brigate Rosse. Molto più di un sospetto, dato che l’agguato era stato rivendicato dalle Br con un volantino lasciato in un cestino di via del Tritone, non lontano dalla sede romana del “Corriere della Sera”, ma perché volere la morte di un uomo schivo, che per quarant’anni aveva lavorato magistratura e che aveva conquistato le luci della ribalta “solo” durante il sequestro di Aldo Moro, quando si era opposto con forza alla concessione della grazia a Paola Besuschio, ex studentessa di Sociologia a Trento, proposta per uno scambio di prigionieri con il presidente della Democrazia Cristiana. Un pentito raccontò che la decisione di colpire il magistrato napoletano fu presa da Prospero Gallinari.

Tartaglione sa di essere un obiettivo facile. Va al lavoro in autobus, non prende nessuna precauzione, gira senza scorta che aveva rifiutato perché – diceva – non voleva sulla coscienza vittime innocenti. Era consapevole del pericolo che correva, ma quel giorno era solo. «È come viaggiare a 150 all’ora in autostrada e se scoppia una gomma sei morto, non c’è niente che si possa fare», aveva confidato a un amico qualche tempo prima.

Nel palazzone ex Incis abitavano 142 famiglie, ma nessuno ha visto nulla. Mentre il magistrato si accascia a terra, senza vita, davanti all’ascensore della scala numero 3, ferito a morte da due colpi di pistola, i sicari si sono allontanati senza lasciare traccia, inghiottiti dal traffico romano. Con una calma serafica si sono lasciati alle spalle il 65enne. Alla portiera, che gli aveva chiesto se avessero sentito dei colpi, che sembravano spari, rispondono di no, che probabilmente si era sbagliata.

Le indagini

La ‘precisione’ dell’attentato alimentò il sospetto che fosse stato pianificato grazie alle informazioni fornite da una ‘talpa’ nel ministero. Alcuni giornali ipotizzarono apertamente che Tartaglione avesse scoperto il nome della spia e per questo fosse stato giustiziato. Anni dopo, una funzionaria di Via Arenula finì in manette, ma furono sufficienti pochi controlli per scagionare completamente la donna da ogni accusa.

Ci vollero anni per fare luce sul delitto, ma l’omicidio del magistrato, avvenuto otto mesi dopo quello del giudice Riccardo Palma, non rimase senza colpevoli. Per settimane lo hanno seguito, come fanno sempre. Hanno messo a punto gli ultimi dettagli al Caffè du Parc. Poi sono entrati in azione, in quattro. A premere il grilletto era stato Alessio Casimirri, nome di battaglia “Camillo”. Alvaro Lojacono conosciuto come “Otello” aveva il compito di fare da palo, nel cortile. Massimo Cianfanelli, seduto al volante di una Fiat 128 rubata, quello di portare gli assassini lontano da via Milizia. Adriana Faranda, invece, ‘sorvegliava’ l’ingresso del palazzo. Il segnale fu dato da una quinta persona, Rita Algranati, la moglie di Casimirri che si era dato “Marzia” come nome di battaglia.