Mauro Rostagno, l’omicidio del giornalista diventato una «camurria»


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26 settembre 1988. Mancavano pochi giorni per archiviare il mese che segna l’inizio dell’autunno, quando un uomo vestito di bianco fu ucciso in una strada buia e isolata, a pochi passi dalla sede di una comunità terapeutica ispirata agli insegnamenti di Osho Rajneesh per il recupero di alcolisti e tossicodipendenti. Di bianco, colore degli ospiti della sede di Lenzi, era anche l’abito di Monica, una bella ragazza dai capelli rossi che quella notte diventerà l’unica testimone dell’omicidio di Mauro Rostagno. Fu lei a raccontare i fotogrammi dell’attentato costato la vita al giornalista, sociologo, e ex leader di Lotta continua.

L’agguato

L’orologio aveva appena segnato le 8.00, quando non lontano da un ponticello della stradina che porta alla comunità è scattato l’agguato in perfetto stile mafioso. Era buio, non solo per l’orario. I killer per poter agire “indisturbati” avevano tranciato i fili della corrente e si erano nascosti dietro un muretto in attesa della Fiat Duna, guidata dal 46enne che, insieme alla compagna Chicca, aveva creato la comunità di recupero. Quando hanno intravisto l’auto hanno aperto il fuoco. Per l’attivista non c’è stato nulla da fare, Mauro doveva morire. E per assicurarsi il suo passaggio a “miglior vita” gli assassini non si sono fermati, nemmeno quando il fucile a canne mozze si è inceppato esplodendo in mano ad uno dei killer.

Le indagini e i depistaggi

Sono stati gli ospiti della comunità a soccorrerlo, ad abbracciare per l’ultima volta il suo corpo a pochi metri da un ibisco rosso che aveva voluto, in ricordo del padre, nel giardino di limoni e aranci della comunità Saman, un rifugio di nove ettari che aveva rimesso in piedi, con gli amici, pietra dopo pietra e che era diventato un porto sicuro per centinata e centinaia di persone che in quel lembo di terra nelle campagne di Valderice avevano trovato un rifugio.

Quando Mauro Rostagno morì aveva quarantasei anni e molte vite alle spalle. Da quelle vite partirono le indagini, ma tutte le piste battute non hanno mai portato alla verità. In un primo momento l’attenzione si era concentrata sulla comunicazione giudiziaria che Rostagno aveva ricevuto sull’omicidio di Luigi Calabresi, ma quella strada che legava il giornalista al delitto del Commissario fu un depistaggio. C’erano poi le ombre, mai confermate, sulla comunità, coinvolta – si disse – nel traffico di stupefacenti. Anche questa ipotesi, completamente inconsistente, fu abbandonata.

Si indagò su tutto, ma non su Cosa Nostra. Rostagno era stato ‘condannato’ per le sue denunce, per il suo «esemplare lavoro giornalistico» che aveva tanto infastidito. Era diventato una «camurria» (rompiscatole), come lo aveva soprannominato apostrofato Francesco Messina Denaro. Il giornalista, scrivono i magistrati della Dda, «aveva toccato diversi uomini d’onore e generato un risentimento diffuso nell’ambito dell’organizzazione criminale». L’ordine dei Capi, insomma, fu eseguito da killer mafiosi. La perizia balistica confermò i dubbi: i proiettili sparati quella sera dal fucile erano della stessa arma usata in almeno altri tre omicidi di mafia.

A uccidere Mauro Rostagno fu la mafia, ma per arrivare alla verità, come è accaduto anche per altri delitti ‘eccellenti’ sono stati necessari tanti passi di dolore e sofferenza. Scomparvero prove. Testimoni chiave furono ascoltati con ritardo. Le intercettazioni vennero attivate solo mesi dopo. Per anni, nessuno ha cercato la verità sull’uomo che dagli schermi di Rtc denunciava i segreti inconfessabili di Trapani.

Il collegamento con un altro omicidio

Nel 1989 fu ucciso un tecnico dell’Enel, autista del boss Vincenzo Virga, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Quella sera, lungo il viottolo dove avvenne il delitto, mancò “misteriosamente” la corrente elettrica a causa di un black-out: secondo alcune testimonianze, la cabina elettrica era stata manomessa proprio dal tecnico dell’Enel, ma il sospetto non è mai stato confermato.