La storia di Michele Sindona, il banchiere morto per un caffè al cianuro


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Per Michele Sindona, l’avvocato di Patti diventato un «mago della finanza», si erano aperte le porte del supercarcere di Voghera, dopo la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il gentiluomo che era riuscito a inchiodare il finanziere alle sue responsabilità, ma la sua permanenza in cella è durata appena di due giorni, come quelli trascorsi in Ospedale, in coma profondo, dopo era stato ricoverato in rianimazione per aver bevuto un caffè al cianuro.

La sua morte è stata archiviata come un suicidio: il veleno ha un odore forte, penetrante. Sarebbe impensabile, è stato detto, che il banchiere lo avesse mandato giù involontariamente, ma il dubbio che qualcuno abbia voluto, in questo modo, assicurarsi il suo silenzio resta ancora una delle ipotesi sul tavolo. Sindona, il professionista che aveva costruito un impero, poi crollato pezzo dopo pezzo, come in molti hanno scritto si è portato nella tomba molti segreti d’Italia e quel coperchio messo per coprire i suoi misteri a qualcuno è sembrato ‘provvidenziale’.

Del resto al suo nome (e alla sua personalità) sono legati molti enigmi dell’epoca: nel 1973 Giulio Andreotti lo definì il «salvatore della lira». Nel 1974 l’ambasciatore Usa in Italia lo premiò come «Uomo dell’anno». Era uno degli uomini di fiducia del Vaticano e, in particolare, dello ior diretto da Paul Marcinkus, ma aveva anche legami con la mafia. Era anche iscritto alla loggia massonica Propaganda Due di Licio Gelli, la società segreta che contava 972 nomi eccellenti. I suoi legami sono solo una parte della storia, l’altra è quella del finto rapimento, quella dei fallimenti della Banca Privata in Italia della Franklin National Bank a New York, acquistata poco prima del crac, quella delle condanne a 25 anni per frode, spergiuro, appropriazione indebita di fondi bancari e quella del carcere a vita per essere stato il mandante dell’omicidio Ambrosoli.

Suicidio, omicidio o errore?

18 marzo 1986. L’orologio aveva appena segnato le 8.10, quando Michele Sindona si prepara per la colazione. Prede le cinque bustine di zucchero sul vassoio e ne mette un po’ nel caffè. Non era seduto al tavolo, come era solito fare, ma chiuso in bagno, dove sorseggia dal bicchierino di plastica la bevanda che sarà mortale. Torna in cella poco dopo, barcollando. «Mi hanno avvelenato» dice agli agenti che stazionavano, giorno e notte, davanti al cancello che chiudeva la cella, prima di accasciarsi sul letto. L’allarme scatta subito, ma la corsa in ospedale sarà vana. Due giorni dopo il ricovero, dopo aver lottato con quella morte che forse aveva cercato da solo il banchiere si spegne. Suicidio per avvelenamento da cianuro di potassio: caso chiuso.

Qualcuno però non crede a questa versione, impressa nero su bianco sulle tre telecamere installate dentro la sua cella rimandano la sequenza. C’è chi pensa che Sidorna abbia pagato con la vita una messinscena architettata con cura e finita in tragedia. Il caffè corretto al cianuro ha un odore forte e brucia la bocca al contatto, allora perché non si è fermato al primo sorso? E perché si è chiuso in bagno, cosa che non aveva mai fatto in un anno e mezzo? Una delle risposte potrebbe essere che era stato lui stesso a mettere il veleno. O perché da tempo pensava al suicidio, per  uscire di scena con un coup de théatre o perché voleva inscenarlo, come aveva fatto per il suo finto rapimento, quando era arrivato al punto di farsi sparare in una gamba.

Quella mattina, secondo una delle tante ipotesi, andò a zuccherare il caffè in bagno per avere un “malore” che lo avrebbe riportato negli Stati Uniti, sulla base di un accordo sulla custodia di Sindona, legato alla sua sicurezza e incolumità. Ma quel caffè al cianuro lo aveva ucciso, qualcosa nel piano, se mai c’era stato, non aveva funzionato.

C’erano tracce di cianuro nella tazzina che il finanziere lasciò sull’orlo del lavabo, ma se il veleno era stato nascosto nelle bustine di zucchero è impossibile dirlo, dato che erano sparite. Proprio il fatto che non furono trovate, né quelle vuote né quelle piene, ha alimentato l’ ipotesi di un omicidio, come Pisciotta, ma la ricostruzione non regge. Chi poteva volere la sua morte?

La risposta alla domanda va cercata nell’ascesa e nel declino di quell’impero miliardario che l’avvocato siciliano aveva costruito dal niente e che aveva affossato.