La lunga notte del Moby Prince, una sciagura avvolta dalla nebbia del mistero

Il 10 aprile 1991 il «Moby Prince» si “scontrò” con la petroliera «Agip Abruzzo» ancorata al largo del porto toscano. Nell’incendio scoppiato dopo l’urto morirono 140 persone. Si salvò miracolosamente solo il mozzo Alessio Bertrand.

10 aprile 1991. L’orologio aveva appena segnato le 22.00, quando il traghetto di linea «Moby Prince» lascia il porto di Livorno con il suo carico di vite umane. Sulla nave diretta a Olbia ci sono 140 persone: il capitano Ugo Chessa con i membri del suo equipaggio e 75 passeggeri. Potevano essere di più, la nave è in grado di accogliere 1590 persone e di trasportare comodamente nel suo vano garage che la percorre da poppa a prua 360 autoveicoli, ma siamo in bassa stagione. Ignari del destino a cui andavano incontro, i viaggiatori si preparano per la traversata sulle onde del mar Tirreno, la numero 19 nella stagione: chi in cabina, chi al telefono con amici e parenti, chi al bar della nave per un momento di relax sulle note di “Quando, quando, quando”. Il mare è calmo, il cielo è limpido.

Ventisei minuti dopo, sul canale 16 della sala radio della capitaneria giunge un may day. Scatta l’allarme: è stato chiaro fin da subito che non lontano dalla costa si stava consumando una tragedia. Le squadre di soccorso puntano dritte verso un muro di fiamme che illuminano il cielo in quella buia notte di primavera. Era un mercoledì.

Il disastro

Il Moby Prince si era scontrato con la petroliera Agip Abruzzo, un gigante di 280 metri carico di greggio. E nell’urto, il petrolio contenuto nella “cisterna 7” si riversa sul traghetto, innescando un incendio. A causa delle scintille e del calore prodotti dallo sfregamento delle lamiere delle due navi al momento dell’impatto, il petrolio prese rapidamente fuoco. Le fiamme divampano e, in pochi minuti, raggiungono il punto più affollato della nave, il salone Deluxe, dove sono stati ritrovati molti dei passeggeri presenti a bordo. Alcuni stringevano tra le mani bagagli e valige, come se fossero pronti a sbarcare, a lasciarsi alle spalle l’inferno che, invece, li ha sorpresi e condannati.

Il bilancio è doloroso, tragico, ma non tutti hanno trovato la morte. Un mozzo napoletano, Alessio Bertrand, riesce a salvarsi. Si era aggrappato alla poppa della nave, ed è li che è stato recuperato.

Dopo la collisione, preso atto della tragedia, non restava che capire cosa l’avesse provocata. Il mare era calmo, ma la nebbia non si tagliava neanche col coltello. Scarsa visibilità?

Fu solo la prima, e non l’unica causa finita sul tavolo per spiegare la sciagura, l’incidente. Era stato un errore umano, una imprudenza, la velocità troppo elevata del traghetto… è stato anche detto, e poi smentito, che l’equipaggio era “distratto” da una partita di calcio, la gara di andata della semifinale di Coppa delle Coppe tra la Juventus e il Barcellona.

S’indagò persino su una possibile e improbabile bomba perché furono ritrovate tracce di semtex, un esplosivo al plastico usato da mafiosi e terroristi.

Alla fine la nebbia non era nebbia ma per anni ha coperto ogni cosa, a cominciare dalla verità.

I misteri

Si è parlato tanto di imbarcazioni che movimentavano armi (operazione vietata di notte e in prossimità delle rotte commerciali), notate mentre si allontanavano a grande velocità dal luogo della collisione. Un ufficiale aveva scritto tutto, nero su bianco, in una relazione consegnata 24 ore dopo la tragedia. Ma il documento, inspiegabilmente, sparisce dal fascicolo.

Di chi sono quelle navi? Perché si trovavano lì e, soprattutto, perché fuggono anziché prestare soccorso? Sono solo alcune delle domande rimaste senza risposta. Le altre riguardano i soccorsi che si concentrarono a lungo solamente sulla petroliera mentre il “Moby Prince” vagava in fiamme senza che nessuno se ne preoccupi. È stato fatto abbastanza per salvare passeggeri ed equipaggio del traghetto?

Il fatto che tra le fiamme del tragico rogo originato dalla collisione tra il traghetto carico di passeggeri e la petroliera siano rimaste molte verità ha contribuito a fare della tragedia del Moby Prince uno dei misteri d’Italia. Resta solo il dolore per le 140 persone che hanno perso la vita in un modo atroce e, per moltissimi versi, inspiegabile.

Si potevano salvare?

A bordo erano presenti 75 passeggeri e l’equipaggio, formato da 65 persone agli ordini del comandante Ugo Chessa. Molti, si è accertato, morirono sulla «bettolina» per intossicazione. Svenuti e privi di sensi, ma vivi, hanno respirato fumo per ore mentre le fiamme li avvolgevano. Quando i presenti furono radunati nel salone DeLuxe forse non era ancora troppo tardi. Non lo era. E lo dimostrerebbero anche le impronte lasciate sulle auto parcheggiate nel garage e ricoperte di fuliggine. Indizi terrificanti, che dimostrano il tentativo dei passeggeri di mettersi in salvo. Purtroppo comunque senza trovare scampo.

Non solo. Alle 10.00, quando ormai il sole era alto nel cielo, il mare ha restituito la prima vittima. È il barista della discoteca della “Moby Prince”. L’uomo non è morto a causa dell’incendio, ma annegando nel mare pieno di petrolio. Quando si è gettato, il suo orologio si è fermando alle 06:20 del mattino. Meno di quattro ore prima del ritrovamento, ma otto ore dopo la collisione.

Nelle pagine di storia il disastro della Moby Prince è stato archiviato come un incidente senza colpevoli, ma il racconto di quella lunga notte è ancora pieno di ombre. Sull’incidente è stato detto e scritto di tutto e il contrario di tutto per tentare di ricostruire l’ultimo viaggio del traghetto, ma nonostante gli anni passati resta ancora l’amara sensazione che di come andarono realmente le cose quella notte non sappiamo quasi niente.