Emanuele Basile era un carabiniere, il comandante della Compagnia di Monreale, ma quella notte del 4 maggio 1980 era solo un padre e un marito. Con la figlia Barbara di appena 4 anni in braccio e la moglie Silvana stava tornando in Caserma dopo aver assistito al tradizionale spettacolo pirotecnico che chiudeva la festa del Santissimo Crocifisso, quando un killer gli sparò alle spalle. A premere il grilletto di una rivoltella calibro 38 fu Giuseppe Madonia, figlio del boss di San Lorenzo. Con lui c’erano Vincenzo Puccio ed Armando Bonanno, il primo ucciso a colpi di bistecchiera di ghisa in una cella del carcere dell’Ucciardone, l’altro inghiottito dalla lupara bianca.
L’orologio aveva da poco segnato le 2.00. Il Comandante fu accompagnato in Ospedale, a Palermo, ma l’intervento chirurgico d’urgenza per salvargli la vita fu inutile. Come inutile fu il tentativo di Silvana che cercò invano di proteggere il marito dal colpo di grazia e che con coraggio urlò ai killer «assassini, delinquenti». Si salvò per un pelo grazie ad un’agendina con la copertina di argento massiccio in cui si conficcò il proiettile. Un regalo del marito.
Ma che colpa aveva il Capitano originario di Taranto? Quale oltraggio doveva pagare per essere ucciso in piazza a sangue freddo, da una distanza ravvicinata, con il rischio di colpire la bambina che per anni ha portato il peso di quella notte, il senso di colpa per non aver avvertito il papà? Barbara aveva notato un uomo che si avvicinava, anche se gli occhi si chiudevano dal sonno, ma era troppo piccola per comprende cosa stava per accadere. Non aveva fatto abbastanza, ripeteva con innocenza con la manina ancora sporca di polvere da sparo. Con fatica, fu la mamma a spiegarle che le pallottole corrono più veloci delle gambe e che scappare non sarebbe servito.
La sentenza di morte nei confronti del capitano era stata firmata da Cosa nostra. Basile, vicino a Paolo Borsellino, stava seguendo le indagini sull’omicidio del capo della Squadra mobile palermitana Boris Giuliano, avvenuto il 21 luglio 1979. E mettendo insieme tutti i pezzi era arrivato al clan dei corleonesi, ai loro traffici. Il Comandante aveva ricostruito in quadro criminale che faceva capo a Totò Riina, finito sul banco degli imputati come mandante insieme agli altri boss della Cupola. E aveva consegnato i faldoni al giudice Paolo Borsellino.
‘Un appuntamento galante’. La cattura dei killer
L’omicidio non restò senza colpevoli. I carabinieri catturarono i killer poco dopo il delitto. Dissero che avevano “un appuntamento galante con delle signore”, ma che non potevano fare nomi “perché erano sposate”. Ma quello che doveva essere un caso chiuso fu solo l’inizio di un calvario.
Inutile dire come andarono i processi. Cosa Nostra si mosse subito. Davanti a Borsellino cominciarono a sfilare falsi testimoni che costruirono tre alibi perfetti per i sicari. Qualcuno tentò di minacciare i medici legali. Qualcun altro provò a ricattare i periti. Tutto fu inutile, ma ci sono voluti anni per avere ‘giustizia’ o qualcosa di simile.
Tre anni dopo la morte di Basile, il 13 giugno 1983, fu ucciso Mario D’Aleo, sempre per mano di Cosa Nostra, che ha preso il posto del Capitano come Comandante della Compagnia di Monreale. Aveva 29 anni e stava per sposarsi.