Come tanti capitoli nella storia dei «delitti eccellenti», anche per Giangiacomo Ciaccio Montalto, ucciso il 25 gennaio 1983, è stato il tempo ad essere galantuomo. Per anni, sono state tante le domande senza risposta, fino a quando movente, mandanti ed esecutori dell’omicidio furono scoperti. Il magistrato era stato eliminato su ordine di Totò Riina perché aveva dato “fastidio” a Cosa Nostra, indagando sul clan di Antonino, Calogero, Giuseppe e Giacomo Minore, uno dei più spregiudicati all’epoca. Ciaccio Montalto voleva spedire i quattro fratelli al soggiorno obbligato e ordinò così ai carabinieri un dossier sulle loro attività: omicidi, spaccio di stupefacenti, traffico di armi, sequestri di persona come quello dell’industriale Michele Rodittis.
Nel 1982 spiccò quaranta ordini di cattura contro mafiosi e imprenditori della zona, tutti scarcerati per insufficienza di prove nel giro di qualche mese. Deluso e amareggiato dallo scarso risultato delle sue inchieste, decise di chiedere il trasferimento a Firenze. La Toscana su cui la mafia aveva allungato le mani.
L’omicidio del magistrato scomodo
L’orologio aveva da poco segnato le 7.15, quando una pattuglia dei carabinieri notò un’auto ferma all’altezza del civico numero 2 di via Carollo. Nell’abitacolo della Golf con i vetri in frantumi c’era il corpo senza vita del Giudice, crivellato di colpi d’arma da fuoco, sparati da armi diverse come hanno raccontato i bossoli ritrovati dagli uomini in divisa. Aveva 41 anni ed era morto da solo, nel cuore della notte. L’orologio sul cruscotto segnava l’ 1,12, si era fermato dopo quel fuoco che aveva rotto il silenzio in quella strada stretta nelle campagne di Valderice, a pochi passi dalla villa del sostituto procuratore, dove si era trasferito per proteggere la famiglia dopo le minacce che aveva ricevuto. Nessuno però ha sentito nulla. Nessuno ha fatto caso a quei 14 proiettili che hanno messo fine alla vita del magistrato.
Le indagini
Dopo l’omicidio per la famiglia del giudice cominciò un altro calvario. Antonino (Totò) Minore, ritenuto il mandante, Ambrogio Farina e Natale Evola furono condannati all’ergastolo in primo grado. Pena annullata in appello. Quando toccò alla Cassazione, che rese definitive le assoluzioni, tutti gli imputati erano scomparsi, deceduti. Non c’erano più colpevoli per l’omicidio di Giangiacomo Ciaccio Montalto che sognava di battere la mafia con la giustizia, per la morte del sostituto procuratore che, con le sue intuizioni, aveva svelato i traffici di armi e droga, per il giudice che aveva capito che bisognava indagare anche sui legami con gli “insospettabili”, nascosti tra la gente come nei Palazzi di Giustizia.
Nel 1995, grazie alle dichiarazioni di alcuni pentiti, si scriverà un’altra storia, l’ultimo capitolo. Ad ordinare la morte del magistrato scomodo sarebbe stato Totò Riina, infastidito dal giudice che aveva firmato un mandato di arresto contro l’anziano zio, Giacomo. C’era poi la questione del trasferimento in Toscana, dove zio e boss avevano forti interessi economici e criminali. Dopo 13 anni, la Cassazione condannerà il Capo di cosa nostra e Mariano Agate, il capomafia di Mazara del Vallo che, passeggiando nei corridoi del carcere, passando di cella in cella annunciava che «Ciaccino arrivau a stazione». Sarebbe arrivato al capolinea il 25 gennaio 1983.
Quel “Ciaccinu arrivau a stazione” che doveva essere la frase centrale per spiegare tutto è rimasta sepolta per anni.