Rastrellamento nel ghetto di Roma, cosa accadde all’alba di quel ‘sabato nero’


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È passato alla storia come il «sabato nero» della numerosa e antica comunità ebraica di Roma perché era sabato quel 16 ottobre 1943, quando alle prime luci dell’alba le truppe naziste entrano nel ghetto per condurre a termine un vasto rastrellamento. L’orologio aveva appena segnato le 5.30 quando i soldati tedeschi, con in mano gli elenchi degli ebrei, cominciarono a passare, casa per casa, per consegnare agli impietriti proprietari un foglietto dove c’era scritto cosa avrebbero dovuto fare. Sei punti che nascondevano una condanna a morte. Tra le righe c’era scritto che dovevano essere trasferiti, senza specificare dove, che bisognava portare con sé i documenti, viveri per otto giorni, effetti personali, denaro e gioielli. Tutto in 20 minuti. Nessun quartiere fu risparmiato: Trastevere, Testaccio, Monteverde.

Fu il giorno più nero, la ferita più profonda della storia degli ebrei in Italia. L’ultima pagina di una dolorosa persecuzione cominciata con le leggi razziali. Dal 1938, infatti, gli ebrei in Italia devono diventare “invisibili”, è persino vietata la pubblicazione dei necrologi sui giornali. Quel giorno furono catturate 1259 persone, 1024 furono deportate ad Auschwitz. Tornarono a casa solo in 16, 15 uomini e una donna, Settimia Spizzichino, sopravvissuta a Bergen-Belsen. Nessun bambino dei 207 catturati si è salvato.

Una strada per la salvezza: 50 chili d’oro in 36 ore

A ingannarli era stato il tenente colonnello Kappler che aveva promesso agli ebrei la salvezza in cambio di oro. «Non abbiamo bisogno delle vostre vite, né di quelle dei vostri figli, abbiamo bisogno del vostro oro. Entro trentasei ore voi dovete versare cinquanta chilogrammi, altrimenti duecento ebrei saranno presi e deportati in Germania». 50 chili di oro entro 36 ore, che, in parte, potevano essere sostituiti da dollari o sterline, ma non da lire, «di lire possiamo stamparne quante ce ne servono», affermò il capo della Gestapo. Con grande solidarietà e generosità anche dei romani, furono raccolti ottanta chilogrammi del prezioso metallo prima della scadenza. Non bastò. La razzia fu compiuta lo stesso.

La deportazione degli ebrei di Roma

«Era sabato mattina, festa del Succot, il cielo era di piombo. I nazisti bussarono alle porte, portavano un bigliettino dattiloscritto. Un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: dovete essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi, via anche i malati, nel campo dove vi porteranno c’è un’infermeria», così Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, ha ricordato quella mattina del 16 ottobre 1943. Pioveva su Roma, una fitta pioggia autunnale che non faceva molto rumore e che copriva di un velo il buio della notte. Alle 5,30 del mattino, con gli elenchi con i nomi e gli indirizzi delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziarono in contemporanea la caccia per i quartieri di Roma.

Le S.S. entrarono in ogni casa che si affacciava sulle vie strette del vecchio ghetto, arrestando intere famiglie sorprese ancora nel sonno. Uomini, donne, bambini, anziani, ammalati, neonati: tutti vennero caricati con la forza sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato erano stati catturati migliaia di ebrei, stanati in ogni edificio della città, dove si sentivano gli stessi passi, si respirava la stessa paura.

Dopo due giorni di prigionia presso il Collegio Militare di via della Lungara, a Trastevere, i prigionieri furono caricati su un treno diretto in Polonia. Il 22 ottobre il carico umano arrivò ad Auschwitz. 820 ebrei furono immediatamente inviati alle camere a gas, gli altri 196 saranno selezionati come lavoratori schiavi.

Alcuni si salvarono per caso, molti scamparono alla razzia nascondendosi nelle abitazioni di vicini, di amici o trovando rifugio in case religiose. Alcuni fascisti come Ferdinando Natoni e il gerarca fascista Achille Afan de Rivera con sua moglie Giulia Florio riuscirono a salvare molti innocenti dal rastrellamento. Il primo, “fascista de fero” finse che le gemelle Mirella e Marina Limentani erano sue figlie. Fu anche arrestato perché era troppo giovane per avere due ragazze così grandi, ma non aveva esitato a mettere in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia. I secondi aprirono la loro casa a decine di famiglie.