“Palermo come Beirut”, Cosa Nostra uccide Rocco Chinnici. Era il 29 luglio 1983


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29 luglio 1983. L’orologio aveva da poco segnato le 8.05, quando via Giuseppe Pipitone Federico si trasformò in un inferno. Su quella strada, dove si affacciava l’abitazione del Giudice Rocco Chinnici, si consumò una strage. Un’auto imbottita di esplosivo, parcheggiata davanti al civico numero 59, saltò in aria, causando la morte del magistrato, degli uomini della sua scorta e del portiere del palazzo.

La Fiat 126 verde, imbottita con 75 Kg di tritolo, tolse la vita al padre del pool antimafia, di cui facevano parte anche Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello. Più volte raccontò che, in questo modo, se gli fosse accaduto qualcosa, le indagini sulle quali aveva lavorato sarebbero rimaste a disposizione dei colleghi che avrebbero potuto portare a compimento la sua opera.

Una morte annunciata

A terra senza vita o a esalare l’ultimo respiro c’erano il giudice, i due uomini della scorta – il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta –  e il portiere del palazzo, Stefano Li Sacchi morto per un gesto semplice. Ogni mattina aspettava Chinnici per stringergli la mano, in segno di stima dell’uomo più che del magistrato.

L’unico sopravvissuto, scampato miracolosamente all’attentato che lasciò un cratere nell’asfalto, fu l’autista Giovanni Paparcuri. Quell’afosa mattina di fine luglio arrivò con l’alfetta blindata in via Pipitone Federico per accompagnare il giudice al lavoro, al palazzo di giustizia. L’esplosione che fece diventare «Palermo come Beirut» lo ha lasciato gravemente ferito e con una serie di cicatrici nell’anima che nessuno potrà mai cancellare.

Fu lui a raccontare le parole del giudice che oggi suonano come una premonizione. Chinnici sapeva di avere una condanna sulla testa, di essere diventato un bersaglio di Cosa Nostra, e pensava agli uomini della sua scorta, mariti e padri di famiglia. Pochi giorni prima li aveva convocati nel suo ufficio. «State attenti alle auto e ai furgoni di grossa cilindrata. Sono preoccupato per voi. Se volete abbandonare la mia protezione il problema non si pone», disse. Ma nessuno lo abbandonò. Anche in un’intervista aveva confidato i suoi timori. «Io non ho paura della morte e so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta».

Il racconto del figlio Giovanni

«Sembrava la fine del mondo. Era successo qualcosa di tremendo a papà. Lo capimmo subito, senza neanche affacciarci al balcone. Scendemmo precipitosamente, dal terzo piano, giù per le scale. C’era fumo, fumo dappertutto. Vedemmo prima il corpo del portiere, a terra, il povero Stefano, ma non riuscivamo a trovare papà. Girammo attorno, con l’angoscia nel cuore» racconta Giovanni che per primo ha scoperto il corpo del papà. « Non auguro a nessun figlio, anzi proprio a nessuno, di vedere con i propri occhi uno strazio simile. Ci chinammo, urlammo di disperazione, ci abbracciammo. Poi rimanemmo ammutoliti».

Ad azionare il telecomando nel momento in cui il magistrato stava salendo in macchina è Antonino Madonia, boss di Resuttana. Era nascosto in un furgone rubato. Insieme a lui c’era Giovan Battista Ferrante.

Stava per chiudere il cerchio attorno ai mandanti e agli esecutori dei delitti di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, per i quali pensava ci fosse un’unica regia. E la mafia lo fermò. Il metodo dell’esplosivo sarà usato ancora. Altre due volte…