L’unica colpa di Sergio Ramelli, simpatizzante del Fronte della Gioventù, era quella di aver criticato le Brigate Rosse in un tema scolastico. Per questo, fu messo alla gogna, preso di mira dai compagni, costretto a cambiare scuola e aggredito da un gruppo di studenti di Medicina legati ad Avanguardia operaia che aveva ricevuto l’ordine di ‘dargli una lezione’. Era il 13 marzo 1975 quando lo studente milanese fu massacrato di botte e lasciato a terra a pochi passi dalla sua abitazione solo perché aveva creduto nelle proprie idee, condivise o meno che siano. Dopo aver lottato per un mese e mezzo, il 28 aprile suo cuore ha smesso di battere.
Per capire come si sia arrivati a questo tragico epilogo tocca riavvolgere il nastro della storia, raccontare il clima vissuto negli anni di piombo, in quella Milano che non era ancora “da bere”. Una Milano che stava curando le ferite della strage di piazza Fontana, della morte di Giuseppe Pinelli, dell’omicidio del commissario Pinelli. Non erano anni facili, insomma. La tensione in quel 1975 che sembra lontano era ancora alta.
Sergio Ramelli era uno studente come tanti in un istituto, teatro di scontri politici tra estremisti di ‘diverso colore’. Una situazione comune all’epoca. L’edificio, risalente ai primi anni sessanta, non permetteva un adeguato controllo dell’ordine pubblico e per questo si era guadagnato la reputazione di luogo a rischio. Lo aveva capito anche Sergio, militante del Fronte della Gioventù. Non aveva mai nascosto le sue posizioni, ma le sue idee di destra lo avevano fatto finire nel mirino tanto che fu costretto a lasciare il “Molinari” per un istituto privato.
Come raccontato dalla madre, la colpa del ragazzo era stata quella di condannare, in un tema scolastico, le Brigate Rosse, aggiungendo una nota di biasimo verso il mondo politico per il mancato cordoglio istituzionale di fronte alla morte di due militanti del Movimento Sociale Italiano, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, uccisi durante l’assalto alla sede del MSI di Padova. Il tema, dopo essere stato sottratto al professore, fu affisso in una bacheca e usato come “capo d’accusa” in una sorta di “processo politico” scolastico, istituito contro Ramelli da studenti che lo accusavano di essere fascista.
L’omicidio di Sergio Ramelli
Quella mattina del 13 marzo Ramelli stava tornando a casa. Aveva parcheggiato il motorino, in via Paladini, all’altezza del civico 15, quando fu aggredito da un gruppo militanti della sinistra extraparlamentare armati di chiavi inglesi mentre stava chiudendo il Ciao con un lucchetto. Ramelli cerca di proteggersi la testa con le mani, prova a scappare, ma inciampa. E gli aggressori ne approfittano per continuare a infierire. Scapparono via solo quando una signora anziana si mise a gridare, implorando loro si smettere. La donna, dal balcone, aveva urlato: “Basta, lasciatelo stare! Così lo ammazzate!”. Ramelli resta sull’asfalto a pochi pazzi dalla sua abitazione. È ancora vivo.
La corsa all’Ospedale Maggiore, dove il ragazzo fu sottoposto a un delicato intervento chirurgico e il ricovero furono vani. I medici non erano mai stati ottimisti, se fosse sopravvissuto non avrebbe più avuto una vita normale, ma la speranza, seppur flebile, si spense definitivamente il 29 aprile 1975. Dopo 47 giorni di coma. Avrebbe compiuto 19 anni il 6 luglio. Il sangue continuerà a scorrere, in quegli anni milanesi. Ragazzi rossi o neri, ancora.
Ramelli non ha avuto neanche un funerale degno di questo nome. Nessun corteo funebre, un rito celebrato nella Chiesa dei Santi Nereo e Achilleo con pochissime persone perché il dolore è della famiglia e loro vogliono piangere in silenzio, ma anche perché gli estremisti di sinistra avevano minacciato di usare chiavi inglesi contro eventuali partecipanti. Dalle finestre delle aule della facoltà di Medicina che davano su piazzale Gorini, alcuni giovani con i volti coperti da fazzoletti rossi avevano fotografato i presenti. Molte delle foto scattate quel giorno sarebbero state ritrovate nel “covo di viale Bligny”.
«Un prete che aveva fatto il partigiano – raccontò la madre di Ramelli – era presente all’obitorio per benedire la bara, e la volle seguire anche in chiesa il giorno del funerale. Quando la polizia glielo vietò si mise a gridare: “Non ho liberato l’Italia per vedere queste porcherie”».
Non si era chiuso un capitolo. Dopo la morte di Ramelli, nel mirino era finita la sua famiglia, perseguitata e minacciata come se il dolore provocato dalla perdita di un figlio o un fratello non fosse già una punizione.
Gli aggressori scoprerti 10 anni dopo
Il ragazzo era stato bersagliato da studenti di colore politico diverso dal suo e, come atto dovuto, le indagini iniziarono da lì. Nessuno c’era, nessuno sapeva, nessuno aveva visto. Tutte le voci si rivelarono non attendibili e tutte le strade imboccate senza uscita. Gli autori furono scoperti dieci anni dopo, grazie alle rivelazioni dei pentiti di Prima linea. La squadra del “servizio d’ordine della facoltà di medicina” era composta da numerose persone: i più avevano il compito di ‘sorvegliare’ la strada per evitare che Sergio fuggisse o per avvisare in caso di ‘interferenze’. Due lo colpirono ripetutamente al cranio con pesanti chiavi inglesi Hazet 36, “quaranta centimetri di acciaio”, un’arma micidiale. Nessuno di loro conosceva Ramelli, ‘riconosciuto’ da una fotografia scattata da un “compagno” di scuola.
Non ci sono mai morti giuste e ingiuste, ma quella di Sergio Ramelli, per anni, è stata ‘giusta’.