Simonetta Cesaroni è una ragazza tranquilla. Da qualche mese aveva cominciato a lavorare come segretaria contabile per due giorni a settimana in uno studio commerciale, al terzo piano di un palazzo che si affaccia su via Poma. Un complesso residenziale, signorile, disegnato negli anni trenta dall’architetto Cesare Valle che aveva deciso di vivere in uno degli appartamenti di lusso del grande stabile ‘protetto’ dagli occhi dei portieri tra cui Pietro Vanacore, detto Pietrino, responsabile della scala B. Un posto tranquillo, dove in passato era avvenuto l’omicidio di Renata Moscatelli, soffocata con un cuscino nella sua casa da una mano sconosciuta, ma di quella storia nessuno parlava più.
L’ultimo giorno in vita di Simonetta, sola in ufficio con l’assassino
Simonetta Cesaroni, una bella ragazza immortalata in una foto resa celebre dalla stampa dell’epoca, quel giorno di inizio agosto era sola in ufficio. Doveva sbrigare alcune pratiche prima di partire per le vacanze senza il fidanzato Raniero Brusco con il quale aveva bisticciato qualche giorno prima. Con il computer aveva curato la contabilità dell’Associazione italiana alberghi per la gioventù. Alle 17.15 è ancora viva, sente un’altra impiegata, con cui divideva la stanza, chiedendo lumi su un codice da usare. Alle 18.00/18.30 avrebbe dovuto chiamare il suo datore, Salvatore Volpone, per aggiornarlo sulla giornata, ma quella telefonata non arriverà mai.
Cosa era successo? Su Simonetta Cesaroni cala il silenzio. Non risponde, non contatta le amiche né la famiglia. Poco prima di cena Paola, preoccupata del ritardo della sorella, si presenta davanti alla porta dell’appartamento di via Poma ed entra grazie alle chiavi della moglie del portiere. La luce è accesa, ma sembra non esserci nessuno. Sembrava non esserci nessuno, perché in una delle stanze, in una pozza di sangue, c’è il corpo senza vita della 21enne. Era stata uccisa, con un’arma appuntita. Un tagliacarte, forse.
Ha cercato di difendersi Simonetta, di fuggire per salvarsi, ma chi l’ha affrontata è stato più forte. L’autopsia racconterà i suoi ultimi drammatici momenti. È stata immobilizzata a terra, forse dopo essere caduta. Il suo aggressore, a quel punto, si è inginocchiato su di lei e ha premuto con talmente tanta forza da lasciarle degli ematomi. Colpita a schiaffi fino a farla svenire, ferita con un tagliacarte per 29 volte: sei agli occhi, otto al petto e all’addome. Gli altri al basso ventre, di cui sei alle parti intime, tutte inferte in limini vitae, tra la vita e la morte. Per Simonetta non c’è stato più nulla da fare. Mentre lei era a terra, lo sconosciuto – rimasto ancora oggi, a distanza di anni, senza volto e senza nome – ha ripulito tutto, lasciando l’ufficio in ordine. Non era l’unica cosa strana.
L’assassino (che avrebbe provato a violentare la ragazza, ma non ci è riuscito) ha portato via alcuni abiti, mutandine comprese, mentre le scarpe, slacciate con cura, erano riposte in un angolo della stanza del massacro, vicino la porta. Immacolate. Ha lasciato anche il corpetto bianco confezionato dalla mamma tagliando la sua camicia di pizzo sangallo. Era posato sul corpo forse per un gesto di pietas dopo l’orrore. E che dire delle chiavi, trovate nella borsetta e usate per chiudere la porta dell’appartamento nel vecchio quartiere signorile della capitale con tre mandate. Troppa attenzione, troppa calma per essere un omicidio d’impeto.
Le indagini
Non ci sono segreti nella vita di Simonetta, solo una “confidenza”: qualcuno negli ultimi tempi la infastidiva con delle telefonate anonime. Era un indizio, un appiglio per gli investigatori che si mescola agli altri ripescati nel passato della ragazza. Le indagini scattano subito, partendo da una certezza: l’assassino doveva essere una persona che Simonetta Cesaroni conosceva. E se l’assassino ha bussato alla porta, la contabile ha aperto senza esitazione, visto che manca lo spioncino. Il segreto di uno dei delitti più celebri d’Italia era da cercare dentro le mura dell’elegante palazzone giallo del quartiere Prati, ma nessuno aveva visto niente.
I sospettati
Il primo sospettato è il portiere Pietrino Vanacore. Viene fuori che non era con gli altri colleghi quando è stato commesso il delitto (pare che stessero seduti tutti su un muretto, in cortile, a prendere il fresco) e sui pantaloni spuntano macchie di sangue (erano sue). Sarà rilasciato per mancanza di prove dopo 26 giorni passati in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Verrà rimandato a casa con tante scuse, ma quella è un’ombra che non si può cancellare né dimenticare. Si toglierà la vita il 9 marzo 2010, gettandosi in mare e lasciando dietro di sé tante domande senza risposta. “20 anni di sofferenza e sospetti portano al suicidio. Lasciate almeno in pace la mia famiglia” si legge in uno dei biglietti di addio lasciati nella sua auto, parcheggiata in località Torre Ovo di Torricella, nel tarantino.
Il secondo nome a finire sotto la lente di ingrandimento è quello di Federico Valle, nipote dell’anziano architetto, ‘incastrato’ da una testimonianza inquietante: il giovane, confuso e disperato per la separazione dei genitori, quel maledetto 7 agosto sarebbe tornato a casa sporco di sangue dopo aver ucciso Simonetta. Il movente? La rabbia per la presunta relazione tra suo padre (figlio di Cesare) e la ragazza. L’ipotesi regge poco, ma nulla viene lasciato al caso. Si scoprirà che il ‘testimine’ era un un truffatore di professione, diventato un informatore della polizia in cambio di piccoli favori. Le informazioni che aveva venduto sul delitto di via Poma erano false.
Nella rosa finisce anche Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta. Contro di lui il Dna ritrovato sul corpo della 21enne. Un morso sul seno sinistro, che lasciò tracce di saliva su un corpetto. Assolto.
Un delitto senza colpevoli
Sul delitto di via Poma, come su tanti altri misteri romani, sembrava calare il buio, mentre tutte le ipotesi venivano archiviate, anche le più azzardate. Si è parlato della banda della Magliana, di un possibile coinvolgimento dei servizi segreti, del fatto che, forse, Simonetta Cesaroni aveva scoperto casualmente nel computer dell’ufficio documenti che non avrebbe dovuto leggere. Anche l’ipotesi del serial killer fu una (falsa) pista seguita. Tante tessere, ma il mosaico non è mai stato completato.
La morte del papà di Simonetta
Di Simonetta Cesaroni resta quella foto in bianco e nero scattata su una spiaggetta del litorale romano. Alla fine il caso è finito nel cassetto dei delitti irrisolti. Anche papà Claudio, come nel caso di Serena Mollicone, se ne è andato senza conoscere la verità. Lui che ogni giorno bussava alla porta della Questura per sapere se ci fossero novità non ha avuto giustizia per sua figlia. Lui che si è improvvisato detective nel tentativo di smascherare l’assassino non ha mai saputo la verità.