Il delitto della Cattolica, la storia di Simonetta Ferrero e di un crimine irrisolto


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Milano, 26 luglio 1971. L’orologio aveva da poco segnato le 9.00, quando nel corridoio deserto dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano si sentono dei passi. Sono quelli di un giovane seminarista che sta cercando un posto tranquillo, un po’ appartato, dove studiare. Passando accanto ai bagni riservati alle donne sente l’acqua scrosciare. «Qualcuno avrà lasciato il rubinetto aperto» pensò. Così, per evitare sprechi, aprì la porta, ma a terra, in una pozza di sangue, trovò il corpo senza vita di una donna.

Era quello di Simonetta Ferrero, laureata in Scienze Politiche e impiegata alla Montedison, come papà Francesco che l’aveva raccomandata con discrezione. Insieme alla moglie e alle due sorelle aveva cercato la ragazza da due giorni, da quando il 24 luglio era scomparsa nel nulla. Sarebbero dovuti partire per le vacanze, ma Simonetta non era tornata a casa. Era uscita di buon mattino per alcune commissioni prima del viaggio in Corsica. Un giro in una tappezzeria di corso Vercelli, poi in una libreria di corso Magenta per acquistare un dizionario. Lo scontrino segna le 10:37. Alle 11.30 fu vista con il suo abito azzurro, a fiorellini, in una profumeria. Terminato lo shopping, si era incamminata verso la Cattolica. Il motivo è un mistero.

Quando all’ora di pranzo non si presenta a casa, i genitori sono sorpresi. Quando non torna nemmeno nel pomeriggio, papa e mamma sono perfino un po’ arrabbiati, ma la sera i familiari, preoccupati per quel silenzio, bussano alla porta del commissariato di zona Magenta per denunciare quella scomparsa inspiegabile. Ventisei anni, graziosa, occhi azzurri, la fronte spaziosa incorniciata dai capelli castani, questa la descrizione di Simonetta.

Il delitto nei bagni della Cattolica

Simonetta era stata pugnalata. L’assassino l’ha colpita al collo, al torace, all’addome per trentatré volte. Sette mortali. E lei si è difesa come dimostrano le ferite sulle braccia. Ha cercato di salvarsi disperatamente, ha provato ad afferrare il coltello, bloccando la lama con le mani, ha urlato, ha tentato di aggrapparsi alle porte, ma nessuno ha sentito nulla, vuoi perché in quel caldo giorno di fine luglio, l’Università era quasi deserta vuoi perché non lontano dal luogo del delitto c’era una squadra di operai al lavoro con un martello pneumatico. Simonetta è morta nel bagno dove è stata trovata. A farle tristemente compagnia solo lo scroscio di un rubinetto d’acqua aperto per due interminabili giorni.

Chi aveva ucciso Simonetta Ferrero, ma soprattutto perché la ragazza era nel bagno della Cattolica, quello del blocco G? Forse, si è pensato, doveva fare un favore a un’amica che le aveva chiesto di recuperare degli appunti per un esame.

Le indagini

Le indagini si concentrano sulla vita della ragazza, ma non trovano nulla. Simonetta è una brava ragazza, senza segreti. Niente fidanzati, niente storielle, una buona famiglia borghese alle spalle. Non c’èra alcun corteggiatore respinto né improbabile amante segreto.

I primi sospetti cadono sul seminarista che, dopo averla trovata, era salito in tutta fretta sul primo treno diretto a Monferrato. ‘Sono stato preso dal panico’, spiegherà due giorni dopo. Tutto nasce da una domanda: «Perché un futuro prete era entrato in quel sancta sanctorum femminile senza esitazione?», ma il suo nome fu presto scartato. Perché avrebbe dovuto aggredire una ragazza che non conosceva e non aveva mai incrociato? Cosa più importante, non aveva segni o graffi sul corpo. E la giovane dottoressa aveva ferito il suo assassino.

Niente fu lasciato al caso. Gli investigatori battono tutte le piste, interrogano 350 persone, escludono i sospettati, scartano molte ipotesi, ma non è facile trovare il bandolo della matassa. Nessuno ha visto né sentito nulla. Non c’è un testimone. Non c’è movente. Nemmeno il corpo di Simonetta parla. L’autopsia conferma le pugnate, trova frammenti di pelle sotto le unghie, segno che probabilmente ha graffiato il killer prima che fuggisse, ma soprattutto esclude segni di violenza sessuale. Allora perché Munny è stata aggredita?

Non era stata una rapina, perché la povera Simonetta aveva ancora al dito l’anello d’oro e nel portafogli i trecento franchi francesi che aveva appena cambiato prima di partire con la famiglia per la Corsica. Non era stato un delitto passionale né una vendetta legata al lavoro alla Montedison. Ogni pista, compresa quella del mostro, del maniaco e del guardone, porta inevitabilmente a una strada senza uscita, a un vicolo cieco.

La lettera anonima

Passa il tempo, e il caso di Simonetta finisce sepolto sotto un mucchio di carte. Fino al 1994, quando il prefetto di Milano riceve una lettera anonima. A scriverla è una donna, sostiene che nel 1974, tre anni dopo l’uccisione di Simonetta, una sua amica è stata molestata da un religioso alla Cattolica. Salta fuori un altro sospetto: un padre spirituale veneto di cinquant’anni, che all’epoca prestava servizio all’università, ma poi fu allontanato perché aveva importunato alcune ragazze. Ma anche questa pista non aveva portati a nulla.

Sul delitto della Cattolica cala il silenzio. Andrea Camilleri descrisse la storia in maniera romanzata in «Salvo amato…» «Livia mia…», racconto della raccolta Gli arancini di Montalbano.

Ancora oggi nessuno sa chi abbia ucciso Simonetta Ferrero in un assolato sabato di fine luglio nei bagni deserti dell’università.