Strage di Ciaculli, la Giulietta che diventò la prima autobomba di mafia


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È passata alla storia come la strage di Ciaculli, perché quel 30 giugno 1963 che sembra ormai lontano, la borgata agricola di Palermo fece da sfondo ad un attentato firmato da Cosa Nostra. Nell’esplosione di un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di tritolo persero la vita quattro carabinieri, due soldati e un poliziotto. La loro unica colpa era stata quella di avvicinarsi a quell’auto abbandonata che qualcuno in una telefonata aveva segnalato come sospetta. «7 uomini a pezzi in un fungo nero», titolò il quotidiano «L’Ora», in edizione straordinaria. Fu la prima volta che un veicolo carico di esplosivo fu lasciato in una strada di campagna per essere usato come trappola. Non c’erano i timer né i telecomandi che saranno usati per altre stragi, ma quella mattina di inizio estate morirono degli uomini delle forze dell’Ordine che stavano solo facendo il loro dovere.

La «strage della Giuglietta»

Fu una pagina di storia dolorosa, purtroppo una delle tante. Cominciò tutto quando l’orologio aveva appena segnato le 11.00 di una domenica che sembrava come tante. Alla stazione dei Carabinieri di Roccella, borgata est di Palermo, giunse una telefonata. Qualcuno si era sentito in dovere di chiamare perché aveva notato un’auto abbandonata sulla strada in zona Ciaculli, tra gli agrumeti della Conca d’oro. Aveva gli sportelli aperti e una ruota a terra o almeno questo disse lo sconosciuto al maresciallo che prendeva appunti sul modello, una «Giulietta» e sul colore, «grigio topo». Nella notte, un’altra  auto carica di esplosivo era stata lasciata davanti ad un’autorimessa di Villabate, paese alle porte di Palermo, uccidendo il custode e un fornaio. Un’altra telefonata era giunta alla Squadra Mobile, mise in guardia gli agenti: «Non avvicinatevi, non toccate quell’auto. Rischiate di saltare in aria da un momento all’altro…».

Tutti si precipitano sul posto: nella macchina c’era una bombola di gas e una miccia lunga una ventina di metri, bruciacchiata e spenta. In attesa degli artificieri, un agente nota che alcuni numeri della targa erano stati verniciati da poco. Dalla centrale – via radio – arriva la conferma: sotto il sole caldo del primo pomeriggio c’era un’auto rubata qualche settimana prima da una stradina nel cuore della città e sette persone, quelle che saranno le vittime: il tenente dei carabinieri Mario Malausa, il maresciallo di Polizia Silvio Corrao, il maresciallo dei Carabinieri Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, il maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, il soldato Giorgio Ciacci. Il loro destino si era incontrato, per non separarsi mai più, a Ciaculli.

L’artificiere era riuscito a rendere offensiva la bombola di gas a cui era attaccata una miccia, ma non era quella la trappola. Convinto che non ci fosse più pericolo e dichiarato il cessato allarme. La bomba vera, quella che avrebbe dovuto uccidere, esplose quando il tenente aprì il bagagliaio della vettura, per una ispezione più approfondita, scrivendo la fine di tutti. Sono le 16.15 in punto.

È stata una questione di secondi. Una sequenza che si ripeterà come un copione triste e amaro nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio e in tutti gli orrori firmati da Cosa Nostra. E come altre pagine, anche per la strage di Ciaculli la strada per la verità è rimasta senza colpevoli, senza nomi, quelli del mandante e degli autori dell’attentato.