17 novembre 2017. Le lancette dell’orologio avevano appena segnato le 3.37 quando Totò Riina si è spento nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Il boss, nato contadino e cresciuto assassino, se ne è andato senza aver mai mostrato un cenno di pentimento. Il giorno prima, quando aveva compiuto 87 anni, era stato permesso ai familiari di stargli vicino. La vita di uno dei criminali più temuti e spietati della storia d’Italia era ormai giunta al capolinea. Per questo si era dibattuto a lungo sulla possibilità che il “capo dei capi” potesse uscire dal Carcere per affrontare una “morte dignitosa”. Ormai ottantaseienne e provato da una serie di malattie gravi, secondo alcuni avrebbe meritato quel briciolo di umanità che ha sempre negato agli altri. La pietà di fronte alla morte di un uomo, dicevano, non avrebbe cancellato il dolore che aveva causato.
Ventisei ergastoli sono stati la massima punizione che lo Stato italiano gli ha dato. Quello Stato che padrino di Cosa Nostra ha sfidato più volte nella sua lunga carriera criminale. Da quando era finito dietro le sbarre – nel famoso blitz del 15 gennaio 1993, quando la faccia della “belva senza cuore”, come lo chiamava il suo nemico numero uno Giuseppe Di Cristina, finì sulle prime pagine dei giornali dopo 24 anni passati a nascondersi come un fantasma – non ha mai fatto un passo indietro. U curtu, nome che gli era stato affibbiato per via della sua altezza (di appena 158 cm), è rimasto muto fino alla fine. Una scia di segreti, misteri e ricatti che ha portato con sé prima in cella, in un carcere di massima sicurezza, poi nella tomba.
Il famoso archivio di documenti che Riina avrebbe nascosto nel suo covo, fogli su cui erano scritti – nero su bianco – i segreti che “avrebbero potuto far crollare l’Italia” non è mai stato ritrovato. Qualcuno mormora che sia finito nelle mani di Matteo Messina Denaro, il superlatitante, frettolosamente indicato come il successore designato.
Da Corleone di Michele Navarra (“u patri nostru”) all’arresto, per il tradimento di Baldassare Di Maggio o forse di Bernando Provenzano, in tanti si sono interrogati su cosa sia successo a Cosa Nostra dopo la scomparsa del boss. Si dice che da quel lontano 1993, quando finì la latitanza del “Capo dei capi”, la “cupola” non si sia mai più riunita. Adesso però era tutto diverso. Riina era morto al 41 bis, ma da capo. In tanti hanno pensato che il “vuoto” lasciato dal vecchio boss sia stato colmato. Per altri, la Cupola non esiste più. Non c’è più il “mandamento” secondo lo schema territoriale descritto da Tommaso Buscetta, il pentito che con le sue rivelazioni, ruppe la diga dell’omertà e portò oltre quattrocento boss nell’aula del maxi processo.
Una cosa è certa: il capo dei capi, cassaforte di molti segreti italiani, li ha portati con sé. La risposta a tanti interrogativi se l’è portata nella tomba. Le uniche verità conosciute sono quelle delle sentenze per i suoi crimini. E tanto basta.