«Questa strada sbilenca, traballante/ fu dunque la mia pelle, / pietre e lastrici umani/ di cui m’entrò nel sangue/ l’odore e la gaia tristezza». La strada sbilenca e traballante – via De Angelis (oggi Via Carlo Russi) – è solo uno dei luoghi di Lecce cantati da Vittorio Bodini. Uno dei maggiori poeti salentini del Novecento ha dedicato molte pagine alla città.
«Questa è la mia città./le mura le avete già viste:/sono grigie, grigie./Di lassù cantavano/gli angeli ne Seicento,/tenendo lontano la peste/che infuriava sul Reame». Così scriveva in una delle sue poesie, ma sono tanti gli angoli che raccontano ancora oggi il rapporto di odio, amore e tormento con la capitale del barocco. Versi in cui si legge desiderio di fuga, ma anche la voglia di ritorno (“Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare”, scriveva in una poesia della Luna dei Borboni).
Un po’ di tempo fa era stato disegnato un itinerario, redatto dal professor Antonio Lucio Giannone (clicca qui per scaricarlo), che toccava 10 tappe: Via Carlo Russi (già via De Angelis), la Chiesa della Madre di Dio o di San Nicolò, comunemente detta Chiesa delle Scalze; Porta Napoli; Santa Croce; Porta San Biagio; la Chiesa del Rosario; Porta Rudiae; Chiesa dei Santi Nicolò e Cataldo; il Castello Carlo V e Piazza Duomo.
I dieci luoghi di Lecce narrati da Bodini
- Via Russi – Via De Angelis: «Questa strada sbilenca, traballante / fu dunque la mia pelle, / pietre e lastrici umani / di cui m’entrò nel sangue / l’odore e la gaia tristezza». Vittorio Bodini ha abitato per qualche anno in una mansarda (in dialetto leccese “suppinna”) al civico 33, di via De Angelis. Era il 1949, dopo il suo ritorno dalla Spagna nell’aprile. La poesia è tratta da La luna dei Borboni e altre poesie (Mondadori, 1962).
- Porta Napoli: «Questa è la mia città, / le mura le avete viste: / sono grige, grige. / Di lassù cantavano / gli angeli nel Seicento, / tenendo lontana la peste / che infuriava sul Reame». L’Arco di Trionfo edificato dai leccesi in onore di Carlo V, costituisce l’ambientazione di questa poesia tratta da Dopo la luna (Salvatore Sciascia, 1956).
- Santa Croce: «Un’aria d’oro / mite e senza fretta / s’intrattiene in quel regno / d’ingranaggi inservibili […].»
In questa poesia, Bodini interpreta la sua città attraverso la chiave di lettura del barocco, inteso non soltanto come stile architettonico, ma come categoria dello spirito (horror vacui). - Porta San Biagio: «Dalla porta del carbonaio / l’acqua s’annera e così prosegue / rinforzata dai canali che scendono / dalle terrazze fino a Porta San Biagio.» Questa poesia è ispirata a una delle antiche Porte della città di Lecce. Bodini la percorreva spesso per arrivare in via De Angelis.
- Chiesa delle Scalze: «La luna dei Borboni / col suo viso sfregiato tornerà / sulle case di tufo, sui balconi. / Sbigottiranno il gufo delle Scalze / e i gerani – la pianta dei cornuti.» La chiesa si trova proprio di fronte all’abitazione del poeta.
- Chiesa del Rosario: «[…] il tuo nome nell’ombra si mette a gridare, / pieno di denti, e morde nella gola / il palmizio e la chiesa del Rosario» L’edificio religioso si trova in una delle vie principali del centro storico di Lecce, a pochi passi da Porta Rudiae.
- Porta Rudiae: «Passeggiava, girava, percorreva instancabilmente la città in lungo e in largo. Attraversava il Corso, le Spezierie, la piazza principale, ma soprattutto i Villini.» In questo brano, Vittorio Bodini descrive parte del percorso tracciato dalle antiche Mura che circondavano la città di Lecce, in particolare l’odierna Viale Gallipoli, dove si svolgeva la tradizionale passeggiata dei leccesi all’inizio del Novecento.
- Cimitero: «Da Porta Rusce usciamo fuori le mura […] Arriviamo al Camposanto, che annunziano da lontano quattro colonne alte e massicce, sul cui frontone è scritto a lettere di bronzo: Per la via irremeabile dell’Eternità.»
- Castello Carlo V- Porta falsa: «Quand’ero ragazzo, alle spalle del Castello, che occupava con la sua tozza mole una vasta area cittadina, si stendeva un piazzale o meglio un vuoto improvviso che nei giorni di mercato si colmava di carri variopinti e cavalli dei villani che venivano da ogni parte della provincia a comprare e a vendere.»
- Piazza Duomo: «Via via che ci addentriamo in questa città che occupa di sé tutto il tallone d’Italia, ci convinciamo che nulla sul nostro cammino attraverso il Sud ci aveva preparati ad un simile incontro, talmente è diversa rispetto a ogni altro paese che la precede. Siamo nelle viscere del Seicento.»
Vittorio Bodini
Nato a Bari nel 1914, da genitori leccesi, Bodini trascorre a Lecce l’infanzia e l’adolescenza. Soffocato dall’ambiente locale, insofferente all’atmosfera della provincia, scappa da questa città per proseguire gli studi a Firenze, dove si laurea in filosofia. Ma, anche se fisicamente lontano, il Sud gli resta nel sangue e nel pensiero.
Dopo aver trascorso due anni in Spagna, comprende che il Sud non è solo entità geografica. Esiste il Sud interiore, intimo, dimensione fantastica che decide di porre al centro del proprio universo letterario. Il Meridione di Bodini è quello dei cieli sanguigni all’ora del tramonto “da bestia macellata”, è quello degli ulivi, della luna e del basilico, è la terra in cui “la luce pare di carne cruda”. In una sorta di panismo, il poeta diventa tutto quello su cui il suo sguardo si posa, ed è “ulivo e ruota d’un lento carro, siepe di fichi d’India, terra amara dove cresce il tabacco”.
Il Sud di Bodini è una condizione interiore in cui la letteratura si congiunge con la realtà, la fantasia si insinua nelle zolle di terra, nelle case dai muri di tufo arsi dal sole; è il Sud delle processioni di santi, dell’odore di agrumi e del vento di scirocco che fanno da palcoscenico ad un profondo senso di intimità che si disperde in “una grande pianura”.