Il PD ‘sballottato’ e le parole senza cose. La riflessione di Enrico Mauro


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La disfatta del Partito Democratico al ballottaggio delle elezioni comunali è stata di tale portata che Renzi è stato costretto ad ammetterla apertamente. Non è di poco conto, però, che il Presidente del Consiglio a tempo quasi pieno e segretario del PD a tempo quasi vuoto non abbia ammesso i propri personalissimi errori.

Tutt’altro. Aveva per tempo, presentendo la sconfitta, tirato indietro la faccia. E, invece di promettere di cambiare rotta, aveva promesso di insistere con ancora maggiore determinazione sulla rotta di sempre. Chi non ricorda la ‘battuta’ sul «lanciafiamme» che ci ha ‘regalato’ dopo il primo turno e che ha fatto profondamente rimpiangere le peggiori barzellette berlusconiane?

Le ragioni della batosta sono tante, complesse, territorialmente diversissime. Qui proviamo a indicarne due che forse sono trasversali ai territori.
La prima ragione potremmo chiamarla quasi assoluta incongruenza tra parole e cose.

Il Presidente del Consiglio potremmo definirlo uno sloganista… a 5 stelle. Lo avevamo capito quando faceva il rottamatore. Lo abbiamo capito ancora meglio da quando è al Governo: «Cambiamo l’Italia in 100 giorni», «L’Italia cambia verso», «L’Italia svolta», «Agganciamo la ripresa» e così via.

Ora, va bene fare promesse, ma qui si tratta, né più né meno, di parole in libertà, di parole senza contenuto, che oggi appaiono senza significato, senza referenza, cioè cui non corrispondono cose, azioni, risultati.

Che vuol dire «cambiare l’Italia» se non si dice come? Che vuol dire «cambiare verso»? Che vuol dire «svoltare»? Per andare dove? E quale ripresa? Il Presidente del Consiglio è informato che, secondo una ricerca del Censis (CENtro Studi Investimenti Sociali) diffusa l’8 giugno, nel 2016 undici milioni di italiani, due milioni in più che nel 2012, non possono permettersi di curarsi?

La seconda ragione potremmo chiamarla quasi assoluta mancanza di identità del PD.
Il PD governa con ex berlusconiani, fa patti, salvo poi romperli, con Berlusconi, prosegue politiche berlusconiane (e montiane, a cominciare da quelle, suicide, sull’università), va a braccetto con la Confindustria, mentre è in perenne conflitto con la sinistra interna e con i sindacati.

Più in generale, che partito è il PD? Non siamo così ingenui da chiederci se difenda degli ideali o se abbia un’idea di società. Abbiamo anche smesso di credere che tenga alla Costituzione e al lavoro. Ma almeno ci piacerebbe capire quali interessi ritenga prioritari, quali fasce sociali voglia rappresentare prioritariamente: scuole e università pubbliche o private, bisognosi o eccellenti, redditi medi, bassi, bassissimi, inesistenti o capitali d’assalto, ambiente o cemento, centri o periferie, messa in sicurezza di tutto il territorio nazionale o grandi opere e grandi eventi? Invece non riesce nemmeno a dire una parola definitiva circa il ponte sullo Stretto (Alfano potrebbe improvvisamente ricordarsi da dove proviene).

Se mai fosse necessaria una riprova della mancanza di identità di un partito che non a caso non ha più la «sinistra» nel nome — figurarsi nel cuore —, sarebbe sufficiente ricordare che la disfatta non è stata una catastrofe solo perché a Milano Giuseppe Sala ha superato del 3% Stefano Parisi. Ma Sala era stato direttore generale del Comune di Milano ai tempi di Letizia Moratti. E nessuno ci ha ancora spiegato, tanto meno Sala, che cosa c’entri un uomo di destra con il PD. A meno che, appunto, il PD non sia un partito di destra, nel qual caso non sarebbe Sala a essere incoerente con la propria biografia, ma il PD a non sapere dove si trova e dove va.

Quanto al Movimento 5 stelle, aspettiamo trepidamente di capire, alla prova dei fatti di governo, quale ne sia l’identità politica, nella speranza che il multipartitismo tendenzialmente tripolare non si riduca a una lite di condominio tra destra di destra, destra di sinistra (a proposito, chissà se Sinistra Italiana respira) e destra oltre la destra e la sinistra.
 
di Enrico Mauro