Non ci sto. Non mi piace, anzi mi ripugna la guerra fratricida scoppiata all’indomani dell’eliminazione dai Mondiali. Un’esclusione innanzitutto ingiusta, figlia dell’ennesimo arbitraggio da barzelletta che ha gettato l’Italia in una condizione di prostrazione psicologica, come se non bastassero i limiti tecnici.
Senza l’espulsione esagerata di Marchisio e con un provvedimento adeguato nei confronti di un piranha travestito da calciatore, ci staremmo preparando alla sfida contro Cuadrado e i fantasiosi colombiani. Anche perché la storia dei campionati mondiali di calcio ci ha già insegnato che quello che si vede nel girone eliminatorio viene contraddetto dagli ottavi in poi.
Nel 1982 diventammo campioni del mondo dopo un vergognoso girone eliminatorio passato solo grazie a un misero ripescaggio per differenza reti. Dalla quinta partita in poi (solo dalla quinta) Paolo Rossi, che era stato un fantasma, diventò il re di Spagna, il Pablito Mundial.
Se l’arbitro, l’altro giorno, fosse stato un uomo e non un cartone animato, ci saremmo forse risparmiati la brutta pagina dell’analisi di un fallimento.
Andiamo per ordine. Balotelli non è più colpevole di me per questa eliminazione, o di qualunque altro giocatore del pianeta. Se l’Italia non ha reso bene, la responsabilità non è certo sua, né del Commissario Tecnico. Quando Claudio Cesare Prandelli lo ha proposto agli Europei, appena due anni fa, e Balotelli ha segnato, il ct era un genio, adesso che ha fatto esattamente ciò che ha sempre fatto in coerenza con la sua visione del calcio, e Balotelli non ha segnato, Prandelli è diventato un pifferaio.
E’ chiaro che non può andare. Balotelli ti porta in finale agli Europei, Balotelli ti porta fuori dal Mondiale. Ci sta. Il calcio è così, come la vita.
Ma il ragazzo (che non è Messi) va aiutato, non gettato a mare, perché è giovane e perché è uno di noi.
Poi c’è l’allenatore; o meglio il selezionatore. Ed è proprio questo il limite massimo di Prandelli, l’essere un grande allenatore che pretende di fare l’allenatore, se non addirittura l’educatore, e non il semplice maestro di cerimonie. Il grande Enzo Bearzot ha vinto il Mondiale perché aveva allevato figli, non selezionato capi di bestiame di ottima qualità. Solo che a Prandelli non glielo hanno perdonato, come se la colpa del declino del calcio in Italia fosse sua e non dell’Italia invece.
A furia di vedere squadre italiane piene zeppe di stranieri e di festeggiare per la vittoria di qualche “triplete” con i club, quelle stesse squadre non riescono a proporre un solo uomo da prestare alla squadra nazionale. Siete contenti dei fenomeni che arrivano a giocare da noi? Bravi. Questi sono i risultati. Quei fenomeni non giocano nell’Italia, ma nelle loro rappresentative nazionali e a noi resta qualche buon giocatore con il sogno del campione nel cassetto.
Gli uomini che Prandelli ha portato in Brasile erano i migliori del calcio italiano, gli attaccanti erano quelli più preparati e nella forma fisica migliore, C’era anche il capocannoniere del campionato di serie A. C’era il meglio a disposizione insomma. I Bruno Conti e i Franco Causio non ci sono più.
E poi parliamo del gioco. Contro l’Inghilterra abbiamo visto una splendida nazionale, un gioco eccellente e una tattica impeccabile. I grandi giornalisti, opinionisti e oracoli del calcio profetizzavano un’Italia fra le tre o quattro favorite alla vittoria. Poi è arrivato il clone di Byron Moreno e qualche defaillance di carattere psico – fisico che ha fatto il resto.
Ma restano due certezze. Il futuro è Balotelli, non Buffon, per ragioni quantomeno anagrafiche. E Prandelli è un meraviglioso allenatore, oltre che una persona splendida sul piano morale e culturale. Un galantuomo, uno al quale darei le chiavi di casa senza esitazione. Un uomo onesto, nel deserto dell’onestà del calcio italiano, un tecnico raffinato che ha capito subito la debolezza dei suoi giocatori, piccoli piccoli, non solo sotto il profilo del gioco.
Le sue dimissioni serviranno a dare una sterzata, ne sono certo. Oggi sappiamo che la resurrezione del calcio italiano dipende dalla buona volontà di tutti. Partire dai settori giovanili, dai talenti italici, dall’orgoglio nazionale, dall’identità di un Bel Paese. Senza processi sommari, senza faide, senza capri espiatori, ma con il lavoro silenzioso e costante di chi può e sa lavorare.
Per fare gol prima di tutto con la testa.