Un libro per l’estate: ‘Il buio oltre la siepe’ di Harper Lee e la purezza della giustizia.


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“Prima di tutto,” disse, “voglio insegnarti un semplice trucco, Scout, e se lo imparerai andrai molto più d’accordo con tutti: se vuoi capire una persona, devi cercare di considerare le cose dal suo punto di vista…”. Con queste parole Atticus Finch si rivolge alla figlia Scout, la piccola e curiosa protagonista del romanzo di Harper Lee, la quale “non ha nemmeno nove anni” e con occhi sgranati guarda il mondo e gli uomini e impara a conoscerli e a comprenderli.

E a darle una mano nell’osservare questi bizzarri e, talvolta, indecifrabili esseri umani, che sono gli adulti, entra in scena, se necessario, il suo adulto preferito, quello che mai la delude e mai la tradisce, che non le parla come si parla a una bambina ma come si parla a una pari, servendosi della sua esperienza solo per rendere il suo cammino più luminoso. Questo adulto è Atticus, brillante avvocato e tenero padre della piccola Scout, sua guida infallibile nell’accettare e capire l’universo di Maycomb, l’immaginaria cittadina dell’Alabama in cui è ambientato il romanzo che – un po’ come la contea di Yoknapatawpha dei romanzi di Faulkner o la Macondo di “Cent’anni di solitudine” – è microcosmo essenziale, è l’unico universo che conta e al di fuori di esso tutto perde senso.

Ma quello che Scout osserva e impara a Maycomb è qualcosa che vale lì come in qualunque altro luogo della Terra, che sia un immaginario Sud degli Stati Uniti o il posto in cui ora voi vi trovate: nelle roventi giornate dell’estate di Maycomb, Scout scopre il senso di giustizia.

Il pretesto della sensazionale scoperta è un processo nei confronti di Thomas Robinson, un nero accusato ingiustamente di stupro e sottoposto al verdetto di una giuria di soli bianchi. In quell’esatta riga del romanzo in cui Atticus, nello stupore generale, si assume l’incarico di difenderlo, “Il buio oltre la siepe” diventa storia universale, storia di giustizia, una giustizia scarna, pura, limpida e bellissima come può essere solo negli occhi e nel cuore di un bambino.

E mentre Atticus pronuncia un’arringa mozzafiato – davanti al giudice e alla giuria e a Scout e al fratello Jem nascosti tra il pubblico, stupiti e affascinati, increduli nel vedere per la prima volta il loro padre sudare di agitazione ed emozione –  il suo cuore è come quello di un bambino e in quel suo cuore prende forma il senso di giustizia, che Atticus ha il desiderio di esercitare attraverso “un’istituzione umana che fa di un povero l’uguale di Rockefeller, di uno stupido l’eguale di Einstein, e di un ignorante l’eguale di un rettore di università”: il tribunale.

La giustizia di cui parla Atticus è quella per la quale “è peccato uccidere un passero”, come spiega a Scout pronunciando la frase che viene ripresa nel titolo originale dell’opera, “To Kill a Mockingbird” (“Uccidere un usignolo”): “I passeri non fanno niente di speciale, ma fa piacere sentirli cinguettare. Non mangiano le sementi dei giardini, non fanno il nido nelle madie; non fanno proprio niente, solo cinguettano”. La giustizia di cui parla Atticus è la giustizia degli indifesi, di chi viene guardato storto perché considerato diverso, di chi viene offeso solo perché debole. “Il buio oltre la siepe” sogna una giustizia ideale, un’ uguaglianza assoluta, un posto al mondo “dove l’uomo dovrebbe essere al sicuro di trovare giustizia (…) di qualunque colore dell’arcobaleno sia la sua pelle”.

“Il buio oltre la siepe” sogna un’aula di tribunale in cui, appunto, i colori non contano, in cui dall’accozzaglia di un grande arcobaleno di personalità, nazionalità, condizione sociale, storie, azioni, sentimenti, considerazioni, per ognuno, conti solo la purezza del proprio cuore.

Adele Errico ha consigliato per Leccenews24 la lettura de Lo straniero di Albert Camus, Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, Lolita di Vladimir Nabokov, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald, Moby Dick di Herman Melville.