​Elicicoltura, tutto quello che c’è da sapere sull’allevamento dei ‘Moniceddrhi’

È famosa tanto da essere celebrata in una storica sagra, ma non tutti conoscono le proprietà nutritive della lumaca. Inoltre l’allevamento della Chiocciola (noto con il nome di elicicoltura) è un settore non molto sviluppato in Italia, ma che può essere redditizio.

Che si possa allevare la lumaca del Salento lo sappiamo. Si chiama “Moniceddrhu” e a Cannole c’è una sagra molto frequentata. Quindi, conosciamo le virtù della carne di “Moniceddru” ma non sappiamo che si possono utilizzare di questa lumaca anche le uova e la bava o muco.
  
Intanto, c’è bisogno di sapere che la produzione italiana di “Moniceddri” copre appena il 40% della richiesta del mercato. E il 60% dei “Moniceddri” che si mangiano in Italia da dove viene? Ecco la sorpresa: vengono sia dai paesi dell’Est che dal Maghreb cioè (da est a ovest) Libia, Tunisia, Algeria, Marocco e Mauritania. Si è stimata la produzione italiana di “Moniceddrhi” in 225.000 quintali con un fatturato di 210milioni di euro questo significa che si vendono in media a 10 euro al chilo.
  
Ci sono prospettive di mercato enormi perché nel mondo e nel 2014 si consumano 811.000 tonnellate di chiocciole della specie Cornu aspersum e della Helix pomatia quindi si aprono interessanti prospettive per chi volesse diventare allevatore di “Moniceddrhi”.
  
Com’è composta la carne dei “Moniceddrhi”? C’è acqua (83,97%), proteine (12,35), sali (1,93%) e grassi (1,75%). E’ evidente quindi che è povera di grassi e con un buon contenuto di proteine, dove gli amminoacidi essenziali sono ben presenti. Ma la cosa interessante è che nella carne di “Moniceddrhi” abbondano i sali minerali e in particolare calcio e fosforo.
  
E quante calorie fornisce una porzione di “Moniceddrhi”? La porzione è fatta da dodici “Moniceddrhi” e fornisce poco più di ottanta calorie, ovviamente condimento escluso.
  
Le chiocciole vengono allevate all’aperto oppure in serra. All’interno della serra ci sono le piante che servono per nutrirli e farli ingrassare velocemente e, nello stesso tempo, c’è la protezione dei “Moniceddrhi” dai raggi solari. Le piante più adatte per ingrassare i “Moniceddrhi” sono il ravizzone ungherese o cavolo cavaliere (Brassica oleracea var. viridis), la bietola da coste (Beta vulgaris var. cicla), il radicchio spadone (Cichorium intybus), il trifoglio nano (Trifolium repens) e il girasole (Helianthus annuus).
  
Quello che pochi sanno è che si mangiano anche le uova di “Moniceddrhi” che sono molto ricercate al punto che vengono chiamate caviale di “Moniceddrhi”. Ogni “Moniceddru” vive da tre a sei anni e inizia a deporre a sei mesi di vita tre, cinque grammi di uova per volta. Le uova di “Moniceddru” sono di colore bianco perla, vengono messe in una soluzione e confezionate al naturale. Il caviale di “Monicedru” è abbinato soprattutto con il pesce crudo.
  
Ma ciò che è più sorprendente è la produzione di bava o muco che l’animale secerne e lascia quando striscia sul terreno o su una foglia. Oggi si utilizza l’ozono per estrarre la bava che ha una composizione complessa contiene allantoina (0,3 – 05%), elastina, collagene (0,1 – 0,3%), acido glicolico (0,05 – 0,1), acido lattico (0,05 – 0,1%), vitamine e aminoacidi essenziali e elicina.
  
La bava per i suoi costituenti é usata dall’industria cosmetica per le sue attività dermatologiche antinfiammatorie, lenitive, ristrutturanti delle cellule utili per una naturale funzione esfoliante che riduce gli inestetismi della pelle umana, quali acne, smagliature, macchie cutanee, cicatrici, rughe e scottature.
  
Ma con la bava di Moniceddrhu si fanno anche degli sciroppi per il suo effetto battericida. Ma questo lo sapevano i nostri nonni che praticavano la cura te li Moniceddrhi che venivano ingeriti vivi. In pratica il Moniceddrhu veniva estratto dal guscio e ingerito vivo per curare ulcere dello stomaco e dell’apparato digerente.
 
Visti i tanti impieghi sono certo che molti diventeranno allevatori di “Moniceddrhi” in maniera tale da coprire la richiesta degli italiani e, perché no, esportarli nei paesi europei.
  
A cura di Antonio Bruno, dottore agronomo



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