«Papà ti vorrei abbracciare tanto, ma so che adesso non è possibile. Tu sei un medico e tutti i giorni in ospedale rischi di contagiarti con il coronavirus e per questo quando torni a casa ci tieni distanti. So quanto anche tu vorresti stringermi forte, come fai sempre, ma dobbiamo aspettare. Mi hai detto che tutto passerà in fretta ma io desidero dirti che ti voglio tanto bene e che ti stingo con tutta la forza che ho».
Li chiamiamo eroi nella trincea della guerra contro il Covid-19. Li chiamiamo eroi, anche se tutti sappiamo – e quando finirà questa triste storia ce lo dovremo ricordare bene – che li abbiamo mandati a combattere senza fornirli delle armi necessarie.
Li chiamiamo eroi anche se sappiamo che devono farsi bastare i pochi guanti e le pochissime mascherine che andrebbero, invece, cambiati più spesso e ad alcuni di loro non glieli abbiamo nemmeno dati. Li chiamiamo eroi anche se siamo perfettamente consapevoli che l’aggressività di quel maledetto virus li tiene tutti a stretto, strettissimo contatto con il rischio da contagio, perché quegli ospedali che abbiamo considerato la sede deputata a combattere la malattia è diventata il primo focolaio dentro cui si rischia di ammalarsi.
Li chiamiamo eroi, già.
In realtà sono semplici padri e madri di famiglia. Che la sera, al ritorno a casa, o al mattino dopo il turno di notte, insieme ad un caffè caldo avrebbero bisogno solo e soltanto di un abbraccio. Perché la fame, se proprio dobbiamo dirla tutta, nemmeno c’è, è pure passata. Ma sono uomini e donne che sanno di poter portarsi dietro il virus e che la vicinanza troppo stretta con un loro caro potrebbe essere causa del peggiore dei drammi per un genitore, quello di fare del male ai propri figli e ai propri compagni, mettendo a rischio ciò a cui più di tutto si tiene, ovvero la loro salute.
Questo è il disegno bellissimo che Bea ha voluto realizzare per il suo papà, un medico leccese che lavora al Vito Fazzi. Ha capito, la piccola, che non lo può abbracciare, che non lo può stringere forte come vorrebbe fare, sentire il suo profumo al collo nel momento della stretta. No, non lo potrà fare per un po’ di tempo. Deve aspettare.
Li chiamiamo eroi per quello che fanno in corsia. Ma forse dovremmo ringraziarli ancora di più per quello a cui stanno rinunciando fuori dal loro posto di lavoro, in quella casa che per tutti noi è un momento di dolcezza che ritempra gli affanni quotidiani ma per loro è invece un cuscino e un materasso fatto di spine per la paura di contagiare i propri cari.
Li chiamiamo eroi, ma forse dovremmo soltanto tacere. E imparare da queste vicende. Perché solo imparando domani e dopodomani potremo davvero costruire un mondo migliore per i nostri figli. Migliore certamente di quello che abbiamo ricevuto.
