
Fino a pochi anni fa quello del cambiamento climatico è stato un argomento sostanzialmente incapace di generare il benché minimo interesse mediatico. Lo si derubricava costantemente come tema tutto interno alla comunità scientifica, al massimo buono come traccia per un tema a scuola. Di quanto questo problema, invece, avrebbe influito direttamente su ognuno di noi, non si è mai stancata di ribadirlo proprio l’unanimità della comunità scientifica. L’ottuso disinteresse – durato decenni -manifestato soprattutto dalle classi dirigenti di tutto il mondo nei confronti del problema del riscaldamento globale, se non causa del problema in sé, ha inequivocabilmente aggravato una situazione già critica, rendendo oggi utopiche le più infauste previsioni di cinquant’anni fa. Abbiamo perso tempo prezioso, e sicuramente i governi non stanno ancora facendo abbastanza, ma il problema ha oggi un grandissimo impatto mediatico, soprattutto sui giovani della Gen Z. Punto di svolta per questa nuova presa di coscienza sono state le proteste di una giovanissima studentessa svedese che nell’agosto 2018, preoccupata dalle anomale ondate di calore e dagli incendi boschivi che si abbatterono sul suo paese durante l’estate, decise di protestare contro l’immobilismo del governo non andando a scuola. Oggi il riscaldamento climatico è tema dominante della maggior parte dei governi del mondo occidentale, spesso presente nei programmi elettorali di molti partiti, ma si ha l’impressione che questo non sia abbastanza, e che per salvare l’umanità da un disastro globale (scientificamente) annunciato sarebbero necessari cambiamenti economici e politici radicali. Motivo per cui si moltiplicano i movimenti di attivisti per il clima, non ultimo Ultima generazione, che protestano perché ritengono insufficienti gli sforzi attuati dai governi per contrastare gli effetti della crisi climatica.
Mediterraneo e Italia: gli effetti più gravi
Guardando ai dati sembra difficile dargli torto. Il Mediterraneo, come il Mediterranean Assesment Report ha evidenziato, e di conseguenza l’Italia, sarà una delle zone che a livello globale subirà gli effetti maggiori. Per il nostro paese, entro il 2050, è prevista una drastica riduzione delle precipitazioni, che creerà non pochi problemi al settore agricolo, il quale già da alcuni anni sta affrontano lunghi periodi di grande siccità. Precipitazioni che tenderanno inoltre ad aumentare l’intensità delle loro manifestazioni, con conseguenti rischi idrogeologici. Anche il settore del turismo è destinato a subire i gravi danni causati dall’innalzamento delle temperature: le proiezioni, per esempio, prevedono una riduzione dei giorni di copertura nevosa compresa tra -20 e -40, con conseguente scomparsa di circa il 70% degli impianti sciistici in tutto l’arco alpino.
La rivoluzione parte dal basso
Ma sarebbe un grave errore pensare che le sole politiche ambientali siano in grado di porre un solido argine agli effetti più drammatici del riscaldamento globale. Quello che deve cambiare, attraverso la sensibilizzazione di ognuno di noi, in maniera altrettanto radicale, è il nostro stile di vita. I gesti più comuni e le azioni apparentemente più innocue sono spesso ben poco sostenibili. Alcuni piccoli accorgimenti, sommati integralmente, possono produrre enormi miglioramenti. Anche le azioni più insospettabili, come mandare una mail o navigare su internet, producono una dose tangibile e misurabile di inquinamento. L’importanza di risparmiare acqua in casa invece è ben nota. Un modo per raggiungere questo obiettivo potrebbe essere per esempio quello di adottare un sistema di scarico Dual flush per il nostro WC grazie al quale ridurre sensibilmente il consumo d’acqua. Il cambiamento parte dalle abitudini individuali della vita quotidiana e da una rinnovata sensibilità ecologica, ma ciò non toglie che il primo passo debba venire dall’alto, dalle politiche ambientali e dunque economiche dei governi a livello mondiale attraverso una stretta e fertile cooperazione di tutti gli stati.
Una sfida globale per il futuro dell’umanità
Dal 1995, quando si riunì la prima volta la Conferenza delle Parti sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, meglio nota come Cop1, per discutere sui meccanismi per affrontare la crisi climatica, il dibattito sul clima ha vissuto momenti alterni di visibilità mediatica.
Un punto di svolta è arrivato con il trattato di Parigi, adottato nel dicembre 2015 durante la Cop21, e sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, il quale prevedeva come obiettivo la limitazione dell’aumento globale della temperatura media del pianeta al di sotto degli 1,5 gradi. Oggi, dopo solo 8 anni, anche nella più felice delle prospettive, questo obiettivo sarebbe ormai del tutto irraggiungibile. Le previsioni derivate durante la Cop28 dalle analisi del Global stocktake, lo strumento di valutazione e monitoraggio dei progressi ottenuti a livello globale nella risposta alla crisi climatica, stimano un aumento delle temperature medie compreso tra i 2,1 e i 2,5 gradi, sensibilmente lontani dunque dal tetto degli 1,5 gradi.
Sintomo che gli impegni assunti dai partecipanti alle conferenze mondiali sul clima attraverso i Nationally Determined Contributions non sono sufficienti e che il phase out – il graduale abbandono delle fonti di energia fossili- sta avvenendo troppo lentamente. Insomma non stiamo facendo abbastanza, lo dicono i dati scientifici e lo continuano a ripetere ambientalisti e comunità scientifica. L’attuale modello di sviluppo, che vede la crescita continua come unica strada percorribile per l’evoluzione della società umana, non permette di portare avanti le politiche ambientali necessarie alla tutela del clima del nostro pianeta. La sfida che abbiamo dinnanzi è di dimensioni epocali, siamo di fronte a un bivio: il sistema capitalistico nella sua forma attuale ci sta portando a una crisi climatica che porterà al collasso di interi ecosistemi, con effetti devastanti sulle società umane. All’orizzonte si profila una crisi globale di dimensioni mai viste e capace di mettere a serio rischio la nostra sopravvivenza. Per la prima volta nella storia della civiltà umana, lontano da facili millenarismi, l’essere umano deve cooperare globalmente per la sopravvivenza dell’intera specie.