Il diritto alla cultura e la logica di mercato nella riforma della ‘Buona Scuola’

LecceNews24.it ospita l’editoriale di Donato Vese che si concentra sulla riforma detta ‘Buona Scuola’ voluta dal Governo di Matteo Renzi. Uno sguardo sul possibile futuro del sistema scolastico e universitario in Italia.

Quando la “scuola” scende in piazza per reclamare i propri diritti bisogna chiedersi quali siano questi diritti e quali debbano essere soddisfatti. Ad esempio, il diritto allo studio è un diritto che la nostra Carta fondamentale contempla come bene meritevole di tutela? Di diritto allo studio la Costituzione parla quando prevede l’evenienza che taluni soggetti, benché «capaci e meritevoli», non siano in grado di «raggiungere i gradi più alti degli studi» perché sprovvisti di (adeguati) mezzi (economici). 
 
In questo caso la Carta fondamentale impone allo Stato l’obbligo di adempiere il diritto in questione mediante la previsione e l’assegnazione di tutti gli strumenti economici necessari a rendere effettivo tale diritto. Da qui l’attribuzione di borse di studio, assegni e altre provvidenze per garantire l’istruzione a tutti gli studenti meritevoli e capaci le cui famiglie non abbiano risorse necessarie. 
 
Ma il diritto che studenti e insegnanti oggi reclamano non è un generico diritto allo studio, è piuttosto un diritto alla cultura, un diritto alla buona cultura, cultura delle arti e della scienza che, come prevede la Costituzione, sono libere ma non liberalizzate, non necessariamente pubbliche ma non completamente privatizzate. Studenti e insegnanti chiedono a gran voce un diritto all’istruzione come sistema pubblico della cultura, in cui la logica del mercato resti fuori dalle Istituzioni scolastiche e universitarie dello Stato.
 
Istituzioni in cui gli studenti non diventino solo una matricola o un badge di una scuola o di un’università, magari rinomata. In cui gli insegnanti non siano valutati in base alla loro performance individuale, alla stregua dei dipendenti di una qualsiasi società di capitali. In cui i prèsidi e i rettori non si trasformino in spietati managers che compiono scelte cruciali per l’istituzione con il solo obiettivo di far quadrare i bilanci dell’ente. È vero che un sistema economico, anche quello scolastico e universitario, è competitivo se competitive sono le sue componenti – dirigenti, insegnanti, studenti – essenziali per il suo funzionamento. 
 
Ma è altrettanto vero che con la competitività e l’efficienza non si ottiene certamente un surplus di cultura, né si ottiene un bilancio positivo di persone acculturate. Sfornare più laureati in medicina significa veramente avere uno Stato più attento alla salute pubblica dei cittadini? Così, produrre più laureati in giurisprudenza vuol dire realmente avere uno Stato che tiene alla giustizia dei cittadini? E ancora, avere più insegnanti contraddistingue seriamente la cultura che uno Stato possiede? Probabilmente no. Ed è la stessa logica del mercato a suggerire questa risposta. Avere più medici non assicurerà che quelli più bravi siano disposti a svolgere la loro professione in ospedali pubblici, piuttosto che in cliniche private: in queste ultime i medici verrebbero lautamente pagati. 
 
Allo stesso modo, non è detto che gli avvocati più bravi saranno quelli che lo Stato prevede a difesa dei cittadini meno abbienti, ad esempio attraverso l’istituto del gratuito patrocinio: ciò per il mero fatto che l’onorario statale potrebbe essere ben al di sotto di quello che il mercato offre. Così potrà accadere verosimilmente anche per gli insegnanti: quelli bravi, evidentemente, preferiranno insegnare nelle scuole o nelle università private piuttosto che in quelle pubbliche dove solitamente oltre a essere sottopagati ora, in virtù della “buona scuola”, saranno anche (sotto)valutati. Tutto ciò accade quando alla base della cultura degli individui si insinua una sola ‘logica’: quella economica.
 
A cura di Donato VESE



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