Xylella fastidiosa, l’urlo degli ulivi chi lo ascolta?

‘Dai batteri dobbiamo difenderci, ma se dobbiamo difenderci anche dagli uomini siamo davvero spacciati’. Leccenews24 ha incontrato un anziano contadino proprietario di un migliaio di alberi nel sud Salento, per capire in che modo vive la questione ‘Xylella fastidiosa’

Ha il volto segnato dal tempo e dalla fatica, quasi come quegli ulivi che ora ha paura di perdere, il contadino che noi di Leccenews24 abbiamo incontrato questo pomeriggio per cercare di capire come la xylella fastidiosa sia riuscita a cambiare il destino di un uomo che nelle campagne ha trascorso la maggior parte della sua vita. Perché il batterio killer che sta facendo paura persino all’Europa, così geograficamente lontana da questo lembo di terra che, come in passato, sembra essere stata “dimenticata da Dio”, spaventa soprattutto chi quella terra l’ha ereditata prima e coltivata poi come se fosse una sorta di missione a cui diversi immolare.

«I miei ulivi stanno bene precisa l’anziano agricoltore con gli occhi lucidi che lasciano trapelare una certa preoccupazione mentre ci porta a fare un giro in un suo terreno da cui, se sforzi un po’ lo sguardo, riesci persino a vedere il mare se il cielo è sereno ma ci sono campagne vicino alla mia, dove è arrivata “quella cosa”». E mentre parla indica con il dito un appezzamento vicino, poco più in là di un muretto a secco. Non riesce nemmeno a pronunciare correttamente il nome xylella fastidiosa, ma conosce alla perfezione le “sue” piante e tanto basta per capire che sono malate, che stanno morendo davanti ai suoi occhi increduli.

«Io non ci credo che non ci sia una cura, è impossibile. Guardi quest’albero – ci dice indicandone uno con un orgoglio che quasi ci ammutolisce – è storto, piegato su se stesso, sembra sul punto di spezzarsi da un momento all’altro. Eppure sono settant’anni che lo trovo sempre lì. Così mio padre. E mio nonno, non è bello?». 

Per un attimo stentiamo a capire come si fa a definire un albero “bello”, poi basta guardarlo con un occhio diverso per rendersi conto che non esiste altro termine per descrivere quel tronco massiccio e contorto, che affonda le sue radici nel terreno puntellato di pietre e che si dirama verso il cielo con le sue chiome argentee e rigogliose. Queste lo sono ancora. Non una foglia marrone, non un ramo secco. Niente.

A pensarci bene persino un genio della pittura come Renoir se n’era accorto, in una lettera datata 1889 scriveva testualmente «L’olivo, che brutta bestia! Non potete sapere quanti problemi mi ha causato. Un albero pieno di colori, neanche tanto grosso, e le sue foglioline, sapeste come mi hanno fatto penare! Un soffio di vento, e tutta la pianta cambia tonalità perché il colore non è nelle foglie ma nello spazio tra loro. Un artista non può essere davvero bravo se non capisce il paesaggio».

L’anziano che abbiamo incontrato non sarà il maestro dell’impressionismo, ma il messaggio è più o meno lo stesso: la terra è un patrimonio naturalistico di inestimabile valore che deve essere tutelato, protetto. E i primi che dovrebbero farlo sono i contadini. Eppure sembrano essere diventati l’ultima ruota del carro, semplici spettatori di un dramma diventato ormai inarrestabile.

«Le malattie ci sono da sempre, perché questa sarebbe diversa? Possibile che si possa combattere solo con l’eradicazione? Ma quando mai? – prosegue il contadino convinto che una soluzione ci sia e che basta solo trovarla – prima di prendere qualunque decisione bisogna fare molta attenzione perché i nostri ulivi, millenari e non, sono stati ottenuti mediante l’innesto della varietà (Cellina di Nardò e Ogliarola) su ceppo di selvatico resistente a ogni tipo di malattia. Non a caso i nostri uliveti sono soprannominati “uliveti reali” (così come classificate nelle carte geografiche dell’IGM) per la bellezza delle piante e la bontà delle olive e degli oli prodotti».

«Non bisogna dimenticare poi che questa tipologia di alberi è riuscita anche a resistere all’incuria grazie al suo legame con la terra da cui estrae la linfa vitale per sopravvivere».

Cerchiamo di spiegargli che, al momento, una cura non c’è, ma non vuole sentire ragioni.

«L’unico torto di questi alberi ultra secolari e alcuni addirittura millenari che sono gli unici testimoni viventi della storia dell’uomo è che non hanno mai chiesto niente a nessuno, nemmeno alle istituzioni che investono fior di milioni per un edificio storico, dove per edificio storico si intende anche un fabbricato con meno di cento anni, e delle piante non si sono mai interessati. Adesso devono pensare pure agli ulivi, che sono veri e propri monumenti.  Glielo dobbiamo».

È a questo punto che il suo racconto si trasforma in una specie di favola: le campagne sono descritte come un luogo magico, per la sua indiscussa bellezza, per quest’ammasso di pietre e alberi come viene definito da chi forse ha poca sensibilità, che raccontano di un tempo lontano, a noi sconosciuto, un tempo nel quale gli uomini avevano un rapporto con la natura molto più forte rispetto ad oggi, un rapporto di reciproca devozione. «Queste cose succedono da quando abbiamo smesso di rispettare la terra –  ci dice – gli ulivi sono stati dimenticati in primis dall’uomo, sono stati bistrattati, sono stati relegati in uno stato di assoluto abbandono, che solo l’inversione di rotta degli ultimi anni, forse salverà…». È colpa nostra allora? Forse non siamo stati noi in grado di capire la fortuna che ci è toccata in sorte?

Basti pensare, ad esempio, al recupero delle vecchie masserie fortificate che se ieri erano immaginate come luoghi di degrado urbano o di marginalità rurale oggi, invece, sono pensate come occasioni di crescita da sfruttare. Si tratta di una concezione del tutto diversa di gestione delle potenzialità del proprio territorio che comprende anche quello dimenticato o apparentemente residuale. Magari anche con gli ulivi basta fare così: cercare nella terra la risposta.

«Lei è favorevole all’eradicazione?» chiediamo al 70enne pur conoscendo la risposta e, infatti, perentorio, pronuncia un secco NO «al massimo si più tagliare tanto dalla radice usciranno dei polloni che nel giro di pochi anni possono diventare nuovi alberi di pregio, mantenendo così facendo la varietà autoctona nel nostro territorio». E poi usa un termine che strappa quasi un sorriso ‘scattunare’, questo bisogna fare.   

Prima di salutarci ci dice una frase che ci lascia un po’ l’amaro in bocca «dai batteri dobbiamo difenderci, ma se dobbiamo difenderci anche dagli uomini, siamo davvero spacciati». Quando si dice vecchia saggezza contadina.



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