È estate in uno dei tanti piccoli paesi del Salento. In questi luoghi, fino a qualche anno fa, le lunghe estati erano decorate, tra le varie coreografie naturali, dalle nostre nonne sedute davanti alla porta d’ingresso della propria casa o di quella della vicina.
Ognuna di loro era impegnata a fare qualcosa, ovviamente sempre per gli altri mai per se stessa. Chi a ricamare, chi a “spingulare” (spuntare le estremità) fagiolini o a pulire le cicorelle o verdure varie da cucinare per i figli.
Sembrava un quadro. Erano sedute su delle sedie richiudibili in legno che dietro portavano incise le iniziali del marito (non sia mai che qualcuno prenda la sedia sbagliata), sul capo un fazzoletto di stoffa e ai fianchi l’immancabile grembiule decorato con dei fiori sbiaditi, un tempo dai colori accesi.
Sullo sfondo il muro bianco della casa e la caratteristica tenda avvolgibile fatta di astine orizzontali in legno. Le tende in legno avevano diverse funzioni. Spiare dalle fessure senza essere visti e, a seconda dell’altezza fino a cui erano avvolte, segnalare l’assenza o la presenza dei proprietari in casa.
I pomeriggi iniziavano alle 17.00 circa quando il sole calava un po’, regalando un minimo d’ombra e lo scirocco si indeboliva rendendo l’aria meno afosa. Il paese si svegliava dalla controra (pennichella pomeridiana) e un leggero vociare pian piano si faceva strada tra il suono delle cicale, tra i rintocchi delle campane della chiesa e tra i cigolii di grandi portoni in legno che si schiudevano.
Il vociare in sottofondo consisteva in qualche pettegolezzo condito da risate singhiozzanti, qualche “culacchio” (storiella) o qualche canto antico ascoltato chissà dove, imparato chissà quando e creato da chissà chi.
In quei canti si poteva rivivere la giovinezza dei nostri nonni quando c’era pochissimo ma si era felici comunque; quando i viaggi più lontani che si potevano fare erano a Lecce per qualche grana burocratica o, esagerando, a Venezia o a Capri per il viaggio di nozze.
I canti o i culacchi venivano interrotti per due motivi. Se “scinnìa lu sirenu” (quando scendeva l’umidità della sera) e quindi si entrava in casa a prendere uno scialle o se squillava il telefono. Quest’ultimo era posizionato su di un mobile in legno a pochi metri dalla porta d’ingresso accanto a qualche Santino o alla foto del figlio in divisa durante il servizio militare o della figlia in abito da sposa.
All’epoca non c’erano i call center e il telefono squillava solo per qualche scherzo telefonico da parte di qualche “scushtumatu” (maleducato) o perché qualcuno dei figli, trasferitosi al nord Italia o in Germania, avvisava che stava per tornare a casa per le vacanze estive e che sarebbe arrivato da lì a poche ore o che stava per partire dalla stazione di Monaco prima di cambiare a Milano.
All’imbrunire tornavano i nonni. C’era chi rientrava dalla “sezione” in Piazza dopo aver discusso di politica dove la conclusione era sempre la stessa: “stemmu meju quannu stemmu pesciu” (si stava meglio quando si stava peggio) o chi, essendo più attivo, tornava dalla campagna con secchi carichi di frutta che pochi minuti prima era ancora attaccata all’albero con quantità tali da sfamare un esercito e che si regalava a tutto il vicinato.
La cena, preparata in casa ma il più delle volte consumata fuori tutti insieme, comprendeva friselle accompagnate da vino casalingo, conserve sott’olio e “cucumbrazzi” (tipo di ortaggio conosciuto come “carosello”).
D’estate poi, si sa, ogni sera una sagra. Le persone più anziane non si muovevano dal loro angolo e qualcuno, tornando da una festa paesana le omaggiava con uno spumone o con un vassoio di dolci perché, anche senza vincoli di parentela, quelle persone erano i nonni di tutti. Quel piccolo pensiero valeva più di tutto l’oro del mondo che loro, con tutta naturalezza, dividevano con i bambini e adulti lì presenti e incredibilmente ce n’era sempre abbastanza per tutti. Le serate scorrevano lente e senza eccessi, avevano il suono dei grilli in sottofondo e come illuminazione c’era la luce della luna che rendeva l’atmosfera surreale.
I bambini, che fino a poche ore prima giocavano e correvano a perdifiato, si addormentavano accanto ai nonni ascoltando le loro storie e i loro canti. Con un susseguirsi di “Buonanotte”, di sedie in legno che venivano richiuse e di colpi sordi di antiche serrature si abbassava il sipario su una delle tante calde giornate salentine.
Ora, in poco più di 20 anni, tutto questo non c’è più.
Al posto di quei canti, dei secchi pieni di frutta, dei grembiuli sbiaditi resta solo un cartello con scritto ‘Vendesi‘ e un numero di telefono appeso su quella tenda in legno ormai logora che non viene riavvolta da tanto, troppo, tempo e che, come uno scrigno, custodisce ricordi dal valore inestimabile.
