5 gennaio 1984. L’orologio aveva appena segnato le 21.30 di quella sera d’inverno, quando in via dello Stadio fu ritrovato il corpo senza vita del giornalista Giuseppe Fava. Il fondatore del mensile “I Siciliani” doveva andare a prendere la nipotina che aveva recitato nello spettacolo «Pensaci, Giacomino!» che lui aveva scritto, ma a pochi passi dal teatro Stabile fu ucciso da cinque proiettili calibro 7,65, sparati alla testa. Non aveva nemmeno avuto il tempo di scendere dalla sua Renault5. Stava per aprire la portiera della macchina, dopo aver parcheggiato, quando un killer sparò attraverso il finestrino. C’è voluto tempo per capire che aveva pagato con la vita la sua lotta contro la mafia, che la sua unica colpa era quella di essere stato un bravo giornalista che raccontava la «verità» in una città dove «la mafia non esiste». Non voleva fare l’eroe ma solo raccontare fatti.
L’omicidio aveva una firma inconfondibile, quella di Cosa Nostra, ma in un primo momento (e per molto tempo) quella morte nel cuore di Catania fu etichettata come un delitto passionale. Si disse che la pistola usata non fosse tra quelle solitamente impiegate dalla criminalità organizzata e, per questo, si doveva cercare altrove. Nemmeno le carte de I Siciliani, con cura in cerca di prove, indicarono la pista giusta. Forse dietro quell’agguato spietato c’era un movente economico, le difficoltà della rivista. Eppure, una settimana prima di essere assassinato, Fava aveva cercato di svelare i legami tra mafia e politica in una intervista con Enzo Biagi, ma nessuno aveva pensato che “qualcuno” aveva messo a tacere, per sempre, la sua voce, diventata scomoda.
Al funerale nella piccola chiesa di Santa Maria della Guardia parteciparono poche persone. A dare l’ultimo saluto al giornalista furono soprattutto giovani e operai che accompagnarono la bara in silenzio.
Le indagini
Un anno dopo, un ragazzo confessò l’omicidio in una lettera alla fidanzata e a un sacerdote. In casa gli trovarono una montagna di copie dei Siciliani, ma non venne creduto. Il killer non era lui e l’indagine fu archiviata. Perché quell’autoaccusa? Un mistero. Il copione si è ripetuto qualche mese dopo, un altro detenuto confidò di essere l’autore del delitto. Tutti vicoli ciechi, strade senza uscita.
Bisognerà aspettare il 1993 per avere uno squarcio di verità, quando alcuni collaboratori di giustizia decisero di ‘cantare’. Grazie alle dichiarazioni di un pentito, quattordici anni dopo l’omicidio, fu scritta una pagina importante della storia di Giuseppe Fava, il secondo giornalista a essere ucciso da Cosa Nostra dopo l’omicidio di Giuseppe Impastato nel 1978, anche se mancano ancora pezzi importanti su chi davvero abbia voluto chiudere la bocca al giornalista.
Una cosa è certa. La sua condanna a morte Pippo l’aveva firmata quando aveva cominciato a scrivere che si sarebbe battuto sempre “per cercare la verità in ogni luogo dove ci sia confronto fra violenza e dolore umano. E per capire il perché”.
