‘Ho visto i bambini giocare a far la guerra e sono andato via’, fuga dall’odio e dall’intolleranza. La storia di Rehan

Abbiamo incontrato il giovane Rehan Syed, originario del Pakistan, approdato in Italia a bordo di un barcone improvvisato, dopo un viaggio disumano. Rehan, giovane insegnante, è stato costretto a scappare a causa della violenza e dell’intolleranza del regime talebano.

Una storia che arriva da lontano, una delle tante, una di quelle a cui, ormai, ci siamo abituati. Storie di chi lascia il proprio Paese ormai diventato irriconoscibile a causa di guerre e guerriglie per cercare oltre confine la Speranza di una vita migliore, col sogno, magari, di far rientro. Un giorno.
 
Negli occhi di Rehan Syed, 28enne originario del Pakistan – da un piccolo paese al confine con l’Afghanistan – si legge il dolore di una Terra che ha perso la sua identità e la sua autonomia, il dolore per una vita che ha subìto una sterzata imprevista e spiazzante.
 
Dopo quell’ 11 settembre è cambiato tutto nel mio Paese – ci racconta Rehan – il regime talebano si è imposto in molti territori, modificando radicalmente i connotati di una società”. Parla italiano, Rehan, a volte fatica un po’ a trovare le parole adatte, ma non abbiamo alcun problema a comprenderlo. Sì, perché Rehan Sayd nel suo paese d’origine è laureato in Relazioni internazionali e svolgeva la professione di insegnante. Insegnava sociologia ai ragazzi di scuola media, in quello che era un clima di pace e di rispetto per i principi dell’Islam, tramandati di padre in figlio. Faceva volontariato per Save the Children.
 
“L’Islam è una religione profonda, con regole e divieti. Tra le regole essenziali vi è quella di non uccidere un innocente!” Ma purtroppo il mondo ben conosce le derive pericolose che nascono non soltanto da un’interpretazione ‘diversa’ delle Scritture – giudicata sbagliata e fuorviante da chi certo non abbraccia simili convinzioni – ma dal germe dell’estremismo che porta a pericolose intolleranze.
 
Nonostante il dolore, negli occhi di Rehan leggiamo la Speranza per un futuro migliore, un futuro da costruire, se pur a fatica.
Il giovane insegnate pakistano ci ha raccontato della scelta dolorosa di lasciare la propria terra e la propria famiglia. “Sotto il regime talebano ho visto i bambini iniziare a imbracciare armi, realizzate con materiale improvvisato. I riferimenti della nostra società sono stati eliminati anche fisicamente, le scuole bruciate. Non potevo assistere oltre a tale violenza e sono andato via”.
 
Da qui la decisione di andare in Libia nel 2014, nella speranza di trovare un clima più tranquillo e un mercato del lavoro più ampio. Invece no, dopo qualche mese trascorso a fare mestieri di vario genere, la scelta sofferta di andar via, lì, oltre il mare, verso un orizzonte incerto, ma quantomeno lontano dall’odio e dalle guerre che distruggono gli animi e le economie. “Sì, perché anche in Libia ci siamo trovati davanti alla guerra. Bisognava salvare la vita e una notte mi sono trovato costretto a fuggire, improvvisamente, lasciando valigie e documenti”.
 
E qui il dolore di un viaggio, uno di quelli che spesso – troppo spesso – vediamo raccontati sui giornali, in tv. Quasi 18 ore di traversata a bordo di un peschereccio improvvisato a traghetto per circa 200 vite umane. “Eravamo stipati nella stiva, laddove viene accatastato il pesce. Le donne e i bambini, invece, erano sul ponte – ci spiega Rehan – ore e ore di viaggio in cui abbiamo perso l’orientamento e il senso del tempo. Una volta partiti dalle coste libiche non sapevamo più dov’eravamo”. Poi il natante viene intercettato in acque internazionali, fino all’arrivo di una nave della Marina Militare italiana che con non poche difficoltà ha effettuato le operazioni di trasbordo di tutti gli occupanti del peschereccio.
 
“Dopo 5 giorni di permanenza sulla nave italiana, siamo approdati nel porto di Reggio Calabria – prosegue Rehan nel suo racconto – qui le operazioni di prima accoglienza e di identificazione. Ci hanno applicato delle etichette identificative per poi spostarci in un campo da calcio adibito proprio all’accoglienza dei migranti. Eravamo senza acqua e senza cibo da troppo tempo ed eravamo affamati e stremati. Ci hanno rifocillato con un piatto di pasta che abbiamo oltremodo gradito, ma era a stento sufficiente a placare la fame”. Sorride Rehan.
 
Poi il viaggio nella notte fino a Chieti dove si sono aperte le porte del “Villaggio della Speranza” gestito da alcune suore. Mai nome fu più azzeccato per il giovane pakistano che, non ancora capace di capire l’italiano, ha cercato di comprendere il significato di quella parola “Speranza” che aveva un suono così dolce. “Hope” , la risposta che la ricerca su Google ha dato a Rehan e da qui il sorriso per una promessa di vita dignitosa. “Sono rimasto a Chieti per circa 3 mesi, poi, appena il tempo di iniziare un corso di lingua italiana, sono stato trasferito a Lecce dove mi trovo dal 2015”.
 
Da richiedente asilo, Rehan ha ottenuto il permesso di soggiorno ed ora è un rifugiato politico. “Ho incontrato non poche difficoltà di ambientamento e nel centro di accoglienza di Lecce non è stato facile orientarmi. Volevo imparare la lingua italiana e comprendere di più sul sistema di accoglienza italiano”. Poi a Bari Rehan frequenta un corso di mediazione interculturale e inizia ad integrarsi fino all’incontro con Karim Benvenuto (ndr. attualmente Presidente Nazionale dell’Associazione Italia-Pakistan e Direttore dell’Osservatorio MALAIKA).
 
Successivamente arriva l’opportunità di partecipare a un bando messo a disposizione dal Ministero dell’Interno: soltanto 100 immigrati in Italia potevano usufruire di una borsa di studio per accedere a percorsi formativi, sia in ambito universitario che in Master. E Rehan ce l’ha fatta.
 
Sì, ce l’ha fatta Rehan, ed ora studia per la Laurea Magistrale in Scienze Politiche. “Tra un libro e l’altro, una lezione e l’altra, presto il mio aiuto volontario all’Associazione di cui Karim è responsabile. Voglio aiutare gli stranieri, i miei connazionali ad essere autonomi, ad orientarsi in un Paese che il loro non è. Perché l’integrazione è autonomia, l’autonomia viene dall’educazione . Non bastano le belle parole, occorrono i fatti”. Occorre una gestione migliore, fare sì che gli stranieri non vengano lasciati soli fuori dai centri di accoglienza, ma messi in grado di formarsi per riuscire a crearsi una vita.
 
E Rehan sorride, come ha sorriso al suono delle parole di alcuni operatori italiani che l’hanno aiutato ad approdare su suolo italico. “My friend” lo hanno chiamato. E qui la prima gioia dopo le lacrime.



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