L’autogol della Brexit aiuti l’Europa a vincere la battaglia dell’unità, senza egoismi politici

Ieri il referendum che ha sancito l’uscita dalla Gran Bretagna dall’Unione Europea. Da sempre i cittadini di Sua Maestà hanno la vocazione a non fare squadra e a correre da soli.

In questi giorni la celebrazione del campionato europeo di calcio per Nazioni ha dato l’impressione a molti uomini di buona volontà che l’Europa avesse un senso, almeno dal punto di vista sportivo.
 
È solo durante le partite di calcio, infatti, che ci viene spontaneo cantare l’inno nazionale, quando d’un tratto riaffiora un sopito sentimento patrio. Magrissima consolazione perché il voto della Gran Bretagna con il quale si decreta la sua uscita dall’Europa, ci riporta sul piano della conflittualità estrema in un continente che non ha dimostrato con i fatti di meritare quell’unità che viene sbandierata sotto le mentite spoglie della coesione politica.
 
Di egoismo politico si parla e di egoismo politico si è trattato nel caso della Gran Bretagna che manifesta, ancora una volta, dinanzi al mondo, il suo difetto di fabbrica, la sua innata incapacità ad integrarsi in qualcosa che non sia marcatamente genuflesso davanti all’Union Jack.
 
Il popolo britannico, per costituzione caratteriale, è un popolo vocato al solipsismo culturale e politico, la sua geografia estrema ne detta i comportamenti e determina una tenace ricerca dell’isolamento. Se si tratta di dire agli altri come vivere gli inglesi sono certamente i più bravi, magnifici a colonizzare mezzo mondo e tronfi dell’universalità della loro lingua madre, ma il talento perfetto di chi impartisce lezioni urbi et orbi si perde dinanzi alla possibilità di condividere un percorso o un ragionamento.
 
L’egoismo britannico, messo alla prova dall’insostenibile leggerezza dell’essere Cameron, ha finito per produrre, con un atto volgarmente democratico ed irresponsabilmente autolesionista, la prima lacerazione in 60 anni di Europa, introducendo il virus del dissidio nell’organismo nato per difendersi dai mali della guerra e dell’odio. Loro, gli inglesi, che prima contro Napoleone, poi contro Hitler, per secoli hanno difeso gli interessi del vecchio continente.
 
Gli inglesi, i primi della classe, quelli che stanno in Europa senza l’euro, quelli che pensano di far coincidere l’inizio e la fine del globo terrestre con la porta di casa loro. Eh sì perché anche il meridiano zero è roba loro, figuriamoci.
Intanto folle di stolti si accalcano sulla soglia della fuoriuscita, torme disumane che pensano di poter fare a meno dell’unità e delle relazioni fraterne fra stati che si riconoscevano quantomeno in una identità storica.
 
Quale follia visionaria può immaginare di reggere l’impatto con le nascenti e soverchianti potenze orientali senza il fronte comune della Grande Europa? L’Italietta così come è non camperebbe un giorno da sola, priva del respiro profondo di un tempo, di quel tempo che ha generato la cupola di San Pietro.
 
Non so se la fortuna esiste, ma il popolo britannico è stato certamente un popolo fortunato, anche troppo fortunato, innegabilmente fortunato, ma oggi, nel mentre la Scozia ci vuol ripensare, invocando l’ennesimo referendum per ribadire il remain, la fortuna potrebbe cambiare, mentre la miglior risposta dei reietti stati continentali potrebbe raccogliere una sfida avvincente.
 
La risposta non è l’Europa, l’Europa è la domanda, a cui si dovrà rispondere sì, senza se e senza ma, e senza esitazione alcuna.
 
Winston Churchill parlando di noi italiani diceva che “gli italiani vanno alla guerra come si va a una partita di calcio, e vanno alle partite di calcio come si va ad una guerra”, perché prendere in giro gli altri è lo sport nazionale britannico, popolo noto per il suo proverbiale humor. Tuttavia la metafora calcistica è perfetta, ma può capirla solo chi è abituato ad un gioco di squadra. Gli altri aprono la bocca ma non ridono.



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