La Legge Basaglia, quando l’Italia decise di restituire dignità alla Follia

Il 13 maggio 1978, l’Italia compì un atto rivoluzionario con la Legge Basaglia, sancendo la chiusura dei manicomi e restituendo dignità alle persone con disagio psichico.

Il 13 maggio 1978, l’Italia compiva un atto rivoluzionario, coraggioso e profondamente umano. Con la Legge Basaglia, che sanciva la chiusura dei manicomi, fu acceso un faro sui fragili, quelli nascosti, quelli dimenticati dietro cancelli arrugginiti e silenzi assordanti. Fu la prima nazione al mondo a scegliere, per legge, di non considerare più la malattia mentale come qualcosa da segregare, punire o nascondere, ma da comprendere e curare in un contesto umano e sociale.

I manicomi, nati con l’intento di “custodire” i malati di mente, col tempo si erano trasformati in istituzioni dove i pazienti perdevano identità, diritti, spesso anche il proprio nome. Dove c’erano più prigionieri che pazienti. Moltissime persone furono rinchiuse sulla base del testo, scritto nero su bianco nella legge del 1904 proposta dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti che ufficializzò i manicomi, ma il passaggio sul «pubblico scandalo» contenuto nel primo articolo aveva avuto come conseguenza quella di aprire le porte degli ospedali psichiatrici anche a omosessuali, prostitute, mogli “indemoniate”, madri “malinconiche”, donne ribelli o semplicemente considerate “inadatte” dalla società dell’epoca.

Il concetto di “pericolosità sociale” era vago e arbitrario, tanto che bastava un medico compiacente o una famiglia imbarazzata per far rinchiudere qualcuno. Chiunque poteva segnalare una persona che veniva così ricoverata in modo coatto, a volte solo per un breve periodo, più spesso per sempre.

L’uomo che osò guardare dentro

La legge porta il nome di Franco Basaglia, psichiatra veneziano che arrivò a Gorizia nel 1961, dove era diventato direttore di un manicomio del posto. Lì vide con i propri occhi ciò che nei libri non era scritto: persone spogliate di tutto, trattate come “casi” e non come esseri umani. Iniziò da lì la sua battaglia. Aprì le porte, tolse le sbarre, permise ai pazienti di riunirsi, parlare, esprimersi. La “comunità terapeutica” divenne il nuovo modello. I pazienti tornavano a essere cittadini.

Basaglia non era un idealista ingenuo: sapeva che la follia esiste, e può essere dolorosa. Ma non accettava che la risposta fosse l’annullamento della persona. Per lui, il manicomio era un luogo che generava malattia invece che curarla.

Con l’équipe di medici e operatori, Basaglia introdusse pratiche rivoluzionarie: assemblee aperte, abolizione delle contenzioni fisiche, accesso ai giornali, ai laboratori, alla cultura. Ogni gesto mirava a restituire dignità a chi l’aveva perduta. La sua esperienza, prima a Gorizia, poi a Trieste, divenne un simbolo internazionale. Nel 1971 fondò il movimento Psichiatria Democratica.

La Legge 180: rivoluzione culturale prima che giuridica

Approvata il 13 maggio 1978 — pochi giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro e in un’Italia profondamente scossa — la Legge 180 segnò un passaggio epocale. Stabiliva che:

  • Non si potevano più costruire nuovi manicomi.
  • I manicomi esistenti dovevano essere progressivamente chiusi.
  • La cura del disagio psichico doveva avvenire nei centri di salute mentale territoriali.
  • Il ricovero era possibile solo in casi estremi, e temporaneo.

Fu una legge breve, di pochi articoli, ma densa di significato. Non offriva tutte le soluzioni, ma tracciava una direzione netta: la follia non era più un reato da punire, ma una sofferenza da ascoltare.

Tra resistenze e incomprensioni

La Legge Basaglia non fu accolta con entusiasmo da tutti. C’era chi temeva che i “matti” liberati fossero un pericolo per la società. Mancavano strutture, fondi, personale formato. In molte regioni l’applicazione fu lenta, talvolta superficiale. Ma la breccia era stata aperta: nessuno avrebbe più potuto dire che il manicomio fosse l’unica risposta.

Quando l’Italia scelse di chiudere i manicomi, non stava solo riformando la psichiatria. Stava affermando, con forza, che nessun essere umano può essere ridotto al suo dolore. Stava dicendo che la follia non è qualcosa da isolare, ma da ascoltare. Che dietro ogni diagnosi c’è una persona. Che curare vuol dire anche riconoscere il diritto alla libertà.

La 180 rimane un faro: ci ricorda che la salute mentale è una questione di diritti, non solo di terapie. E che una società si misura anche da come tratta chi ha più bisogno di essere guardato negli occhi, e non giudicato.