
Già vi ho detto che i miei genitori avevano una ben avviata attività nel campo dei tessuti e quindi come tutti i commercianti, artigiani, leccesi festeggiavano la pasquetta al martedì, e ciò perché a Lecce il mercato del lunedì era sacro, qualsiasi festività dovesse capitare in quel giorno non si sarebbe mai rimandato.
Il martedì chiudevamo il negozio alle 12.00 in punto e da quel momento per noi iniziava la pasquetta de Lu Riu. Questo nome derivava dalla devozione dei leccesi verso la Madonna di Loreto alla quale era stata dedicata una chiesetta nelle campagne fra Lecce e il paese di Surbo. La forma dialettale “d’Aurio e d’Auriu”, aveva subito nei secoli tante di quelle varianti sino a diventare, appunto, “Lu Riu . Al termine della messa i fedeli devoti usavano consumare un pasto portato da casa.
La pasquetta di quest’anno la faremo sulla veranda di casa, non sarà de ‘Lu Riu’, ma de ‘lu virus’, e comunque cercheremo di renderla meno tragica. Quella che vi racconto capitò il 22 aprile. Io e Franca avevamo deciso di passarla a San Cataldo. Ovviamente tanti di voi, i non salentini, vi chiederete dove si trova. A circa 11 km da Lecce c’è San Cataldo, San Catautu pe li leccesi.
Al tempo dei Romani era un porto importante. Ancor oggi si vedono tracce del Molo di Adriano, chiamato come l’imperatore che lo fece costruire. Apro una parentesi, voglio dirvi di San Cataldo ai miei tempi, descriverla con gli occhi di un quindicenne di allora.
Per arrivarci da Lecce si prendevano le “corriere”, dei bus sempre stracolmi, che partivano dalla Villa Comunale. Raramente si trovava un posto a sedere, ma, per la buona educazione di una volta, lo cedevi ai più grandi di te, restando per undici chilometri attaccato al tubo, così chiamavamo il corrimano.
Che divertimento quando ad una curva, o se l’autista frenava bruscamente, si andava a finire gli uni sugli altri, accompagnando il movimento con degli allegri ohohoho, ohohoh. Noi ragazzi, anche se attaccati al tubo, facevamo a gara per accaparrarci “i posti di prima classe “, posizionati, di volta in volta, dietro ad una bella ragazza o a un’avvenente signora. Ogni tanto capitava che le prescelte si mettessero a gridare: “maleducatu, statte a posto cu le manu, ca se no te le spezzu”, unendo anche qualche sonoro schiaffone.
Giunti a San Cataldo c’era una sola fermata, nel piazzale davanti alla Rotonda dove tutti ci affacciavamo per rendere omaggio alla bella baia, con a sinistra lo svettante Faro tinto di bianco, accanto il Molo di Adriano, più in là il Lido York Prete, la Rotonda, e alle spalle la magnifica pineta.

Impossibile scordarsi della regina di San Cataldo, la sabbia dorata e gli ampi arenili. Quante partite al pallone in riva al mare, eterne gare a tamburello, pranzi sotto l’ombrellone, sguardi rubati nel seguire l’incedere delle ragazze, l’ancheggiare di una bella signora esuberante davanti e di dietro, andare nella pineta con una ragazza per mostrarle la vegetazione ….
Mentre scrivo mi viene in mente la bella canzone , ‘La spiaggia noscia‘ dove si osa un confronto con spiagge ben più note e altolocate come Rimini, Ostia,Viareggio, resa nota dal Gruppo Liscio del Salento con Ginone, e da Bruno Petrachi.
Ci Rimini è purtatu tantu all’autu , ci Ostia ci Venezia su nnu preggiu
nui nu ttenimu forse San Catautu, ca se nne futte puru te Viareggiu
‘Nc’ete na rena cussì cauta e fina e n’acqua cussì chiara e cristallina.
Te le piccinne poi nu nde parlamu,
a mmienzu mmare parenu sirene
nui masculi perieddhri ‘nci bbabbamu
nni le presciamu propiu comu ccene
se poi ‘nce quarchetunu ca se lancia,
a mmienzu mmare certu ca se rrancia …………
Tradizione
Se Rimini è portata tanto all’alto, se Ostia e Venezia sono un pregio,
noi abbiamo San Cataldo che se ne fotte pure di Viareggio.
C’è un’arena così callda e fina e un’acqua così chiara e cristallina.
Delle ragazze poi non ne parliamo
In mezzo al pare paiono sirene
Noi maschi, poveretti, rimaniamo a bocca aperta
Ce le vantiamo proprio chissà come
E poi se ce qualcuno che si lancia
Nel mare è certo che si arrancia …….
Questo avveniva una vita fa
Mentre solitamente la nostra meta era Torre Specchia o San Foca per trascorrere la pasquetta, trovandoci soli io e Franca, decidemmo che saremmo andati a San Cataldo armati di panini e bevande per fare lu riu. Erano circa le nove quando ho posteggiato la mia vecchia 206 davanti ad un tratto di spiaggia libera, fra il Lido York e quella che una volta veniva chiamata La Rotonda. Ancora non si vedeva anima viva.
Appena sono sceso giù per i gradini di una piccola scala di legno, poggiando i piedi sulla sabbia, così come destava meraviglia il paesaggio a coloro che per la prima volta scendevano da un natante su una terra sconosciuta, così siamo rimasti stupefatti nel vedere la lunga spiaggia pulita, tracciata da linee tutte uguali lasciate da un mezzo adatto per la pulizia. Non accadeva da tempo immemorabile, esattamente da quando noi ragazzi ‘sciamu a San Catutu cu la curriera’. E mi son sentito tanto come i primi che sbarcarono sulla nostra costa, provenienti dall’Albania o dalla Grecia. Le prime orme di piedi sarebbero state le nostre. Il primo a scendere dopo di noi poteva provare la stessa sensazione che ebbe Robinson Crosuè nel vedere quelle di Venerdì.
Immediatamente ho piantato la nostra bandire …., pardon, il nostro ombrellone nella sabbia, con attorno due sedie ed un tavolino apribile, per far capire a coloro che dopo di noi sarebbero arrivati quali erano i confini del nostro territorio.
Così come gli antichi avevano al loro seguito uno bravo per ritrarre le nuove terre, io avevo il mio smartphone. E scattai una serie di foto, scelsi la più bella, e subito la feci girare su Whatsapp, Facebook, aggiungendo: “Grazie al Comune di Lecce oggi 22 aprile prendiamo atto che da ora in poi San Cataldo ritorna ad essere la nostra spiaggia del cuore”.
Dite che ce la faremo, sto stramaledetto virus, ce lo permetterà di andare quest’estate, per bagnarci nel nostro bel mare? Potremo cantare “ma nui ca tenimu San Catautu ni nde futtimu puru te lu virus?”
(Foto di copertina di Francesco Paciulli)