
Un pesce in grado di “mangiare” la plastica senza il rischio di farsi del male. Il simbolo della lotta all’inquinamento dell’estate in Salento è una struttura a forma di animale marino che funge da contenitore per il recupero della plastica. Ce ne sono già diversi in tutta Italia, a testimoniare una sensibilità ormai diffusa rispetto al tema dell’eccessivo utilizzo e del cattivo smaltimento del materiale organico.
Nei pesci-contenitori è possibile depositare bottiglie, buste di spazzatura e materiali di plastica che molto spesso vengono abbandonati sulla spiaggia o nella macchia mediterranea.
Grazie a questa iniziativa ci si rende contodi quanta sia la plastica che «bruciamo» ogni giorno, a poca distanza dal mare. E di quanto sia necessaria una «spending review» per invertire il trend che oggi ci vede produrre molti più rifiuti di quelli che riusciamo a smaltire.
I pesci “mangia-plastica”, il simbolo della rivincita
Nella realtà sono tra le vittime dell’inquinamento dovuto alla presenza di rifiuti di plastica in mare, ma i particolari pesci «mangia-plastica» si stanno prendendo una rivincita, diventando il simbolo della tutela dell’ambiente, a partire dalle spiagge. Dopo gli esordi in uno stabilimento balneare di Fregene e in un altro di Torre Canne (Brindisi), le installazioni si sono diffuse in tutti gli altri lidi della penisola.
La presenza della plastica nei nostri mari non è più novità, con livelli di inquinamento ormai insostenibili, ma con la differenza rispetto al passato della percezione di quello che fino a dieci anni sembrava un problema emergente. Un problema che oggi è noto a tutti. Vedere pesci intrappolati nelle lattine non stupisce quasi più, anzi fa rabbia.
La presenza della plastica, al pari della popolazione globale, è cresciuta negli ultimi sessant’anni, che sono stati poi quelli in cui il materiale è divenuto di largo utilizzo. Dai due milioni del 1950, la produzione è arrivata a più di 400 milioni di tonnellate nel 2015.
Plastica in mare triplicata da inizi 2000: lo studio degli esperti
La conferma di come la cattiva abitudine si sia diffusa nella seconda metà del secolo scorso la fornisce la ricerca di «Nature Communications» condotta da un gruppo di scienziati dell’Università di Plymouth (Inghilterra) e della Marine Biological Association. I ricercatori hanno passato in rassegna i dati trascritti dal 1950 nei diari di bordo di navi che hanno percorso oltre 6,5 milioni di miglia nautiche, che avevano l’obbiettivo iniziale di rilevare la presenza di plankton negli oceani e che invece si sono ritrovati a registrare la presenza sempre più crescente di plastica industriale.
Dal 2000 a oggi, la probabilità che gli strumenti usati per le misurazioni potessero rimanere impigliati in grandi oggetti «smaltiti» in mari e oceani è triplicata rispetto ai decenni precedenti.
Un’evidenza che, agli occhi dei più, può apparire scontata. Ma la valutazione quantitativa, come confermato da Richard Thompson, a capo dell’unità di ricerca sull’inquinamento marino dell’ateneo britannico, «è essenziale per avviare interventi di politica ambientale su scala globale».