
Fummo tra i primi ad arrivare, era buio. Ci trovammo sulla banchina principale del porto di Otranto con alcuni colleghi delle redazioni locali, più tardi sarebbero arrivati i nazionali, ancora non si conosceva bene la dinamica dell’accaduto. E non sapevamo esattamente cosa e chi cercare, le prime notizie parlavano di un barcone di profughi che si era rovesciato e di tanti naufraghi impegnati a lottare per la sopravvivenza. Una lotta impari, quando c’è di mezzo il mare.
Nel primo collegamento col telegiornale, parlammo di numerosi morti, avevamo rudimentali telefoni cellulari, ovviamente privi di fotocamera, erano i nostri cameramen ad avere il compito di narrare visivamente quella triste giornata. Di notte le notizie peggiorarono, un’unità navale della Guardia di Finanza era entrata in collisione accidentale con un’imbarcazione partita dall’Albania che poteva condurre non più di una decina di uomini, a bordo però si trovavano 140 persone, finite tutte in acqua dopo l’impatto.
La disgrazia fece il giro del mondo, su tutti i giornali e le TV, internet non c’era. Le polemiche furono composte, non ci fu fuoco amico, si concentrarono più che altro sulla necessità di fermare le partenze clandestine. Nessuno tirò la croce addosso al Governo di Centrosinistra, il presidente del Consiglio Romano Prodi non convocò una seduta del Consiglio dei Ministri a Otranto, e la Guardia di Finanza non venne accusata da nessuno. La tragedia era lì, la vedevano tutti e non solo in senso figurato.
Nei giorni, nelle settimane, nei mesi successivi il mare restituì la scena macabra di un film dell’orrore, più a nord lungo le sponde adriatiche, più a sud lungo quelle joniche, i morti tornavano. I corpi venivano a galla o raggiungevano tratti di costa anche molto lontani dal teatro della tragedia. Da Brindisi alle spiagge delle Cesine a Lecce, da San foca a Tricase, fino a Ugento e anche a Gallipoli, decine di corpi spiaggiati con cadenza impressionante tenevano il ritmo funesto di una musica mortale.
Perché il naufragio della Kater i Rades, nel giorno della passione di Cristo, alla vigilia della Pasqua 1997, rappresenta ancora oggi lo specchio delle nostre coscienze da interrogare? Forse perché lo spazio e il tempo del dolore di tanta Umanità ci ricordano che sono sempre con noi