​Nell’università meritocratica lo studioso non può più studiare

La riforma universitaria e il nuovo sistema, paradossalmente rendono ‘impossibile’ al ricercatore-docente dedicare tempo allo studio e all’approfondimento. La riflessione di Enrico Mauro, docente di diritto amministrativo presso l?Università del Salento.

La riforma universitaria del 2010 («Gelmini») e la cascata di atti normativi che non hanno ancora finito di scaturirne, hanno ridisegnato il sistema universitario in senso meritocratico, cioè, per capirsi, hanno iperburocratizzato il sistema, riducendo drasticamente il tempo e le energie dedicabili alla ricerca e all’insegnamento. Il ricercatore-docente dell’università meritocratica passa gran parte del suo tempo a compilare registri, tabelle, bacheche e rapporti, a leggere rapporti altrui, a pubblicizzare il proprio corso di laurea ecc.
  
Ma le giornate continuano a essere di ventiquattro ore e anche il docente universitario ha una vita privata. Sicché, per trovare ancora qualche momento da dedicare a quelle che sarebbero le sue vocazioni, ricerca e insegnamento, deve togliere tempo (oltre che alla famiglia e agli amici) ai colleghi e agli studenti, a tutte le attività che ancora il sistema universitario non riesce a obbligarlo a rendicontare. Dunque dedica meno tempo alla preparazione delle lezioni e alla lettura delle tesi di laurea e di dottorato, tiene ricevimento-studenti via mail, lavora al computer mentre presenzia (fisicamente) ai consigli di dipartimento, legge un rigo sì e uno no delle bozze che i colleghi gli inviano perché suggerisca miglioramenti.
  
E non è questo il peggio. Il peggio, probabilmente, è che non ha più tempo per studiare. Incalzato da sempre più pressanti richieste di ‘produrre’ sempre più articoli, non solo non ha più tempo per leggere i manuali adottati per i propri studenti e le loro tesi, ma non ha più tempo per aggiornarsi e approfondire. Scrive sempre di più leggendo sempre di meno. E sempre più spesso cita lavori altrui senza averli letti per davvero, integralmente e attentamente. Sicché spesso li cita a sproposito.
  
Questo per quanto riguarda ciò che ha l’obbligo di studiare. Figuriamoci poi se ha tempo di leggere ciò che non è obbligato a studiare. Figuriamoci se uno studioso di Manzoni ha più tempo per leggere Leopardi o viceversa. O se uno studioso di Bauman ha tempo per leggere Weber o viceversa.
  
La direzione del sistema, perciò, è quella dello specialismo sempre più esacerbato, perché essere tra i massimi conoscitori di un solo orticello consente una ‘produttività’ molto maggiore dell’essere interdisciplinari, dell’avere una conoscenza meno erudita dell’orticello, ma più vasta, aperta, ariosa. Anche se – ripeteva allo scrivente uno dei suoi maestri – sapere una sola cosa significa non sapere nemmeno quella.
  
Purtroppo, gli studenti educati da iperspecialisti erediteranno e aggraveranno iperspecialismi. Educati da docenti a una dimensione, saranno docenti, lavoratori, cittadini, persone a una dimensione, sempre più angusta.
  
Il sottoscritto conosce il sistema universitario meglio di quello scolastico, ma non ha molti dubbi che, con i dovuti adattamenti, quello che scrive valga anche per la scuola e per la riforma scolastica («Giannini» o «buona scuola») del 2015, perché anche i docenti scolastici sono, in qualche modo e misura, studiosi, anche se la loro missione primaria è quella della trasmissione del sapere, anziché della sua elaborazione.
  
di Enrico Mauro



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