Addio a Giuseppe De Donno, che fine ha fatto la sua cura con il plasma iperimmune

Non bisognerebbe dimenticare che la cura con il plasma iperimmune ha rappresentato una speranza in un momento in cui non c’erano armi per combattere il virus

La notizia della morte di Giuseppe De Donno ha ‘riacceso’ i riflettori sulla cura con il plasma iperimmune, ma per capire cosa abbia rappresentato per le persone questa terapia che utilizzava gli anticorpi dei pazienti guariti per curare le persone che stavano facendo i conti con il Covid19 tocca fare un passo indietro e tornare a quando il virus aveva stravolto le regole della quotidianità, vietando i baci, gli abbracci e i contatti stretti, ancora oggi considerati “pericolosi”.

Non c’era il vaccino, quando l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova aveva dato una speranza a chi stava lottando. La curva dei contagi continuava a salire, il numero dei casi aumentava in maniera “preoccupante”, il sistema sanitario non riusciva a gestire la situazione, con i posti letto centellinati rispetto ai positivi che necessitavano di ricovero, soprattutto in terapia intensiva. Era il momento delle foto dei medici e degli infermieri stremati dai turni massacranti, dei messaggi di incoraggiamento appesi sui balconi. Non c’era una cura, non ancora, ma tante armi per combattere una guerra fuori e dentro le corsie degli ospedali.

Questo è stato il “plasma iperimmune”. Un’arma in un momento delicato, una speranza in chi, ascoltando le tante storie, aveva paura di non farcela a vincere la sua battaglia. Non era una novità, la tecnica era già utilizzata per altre patologie – il trattamento con siero iperimmune è stato utilizzato con successo per la cura di una serie di malattie, inclusa la febbre reumatica, la scarlattina, la parotite, il morbillo, la varicella e le infezioni da pneumococco e da meningococco – ma il professor De Donno aveva avuto l’intuizione, se così si può dire, di metterla in campo contro il covid19. Eppure la terapia si è dovuta scontrare con la diffidenza e lo scetticismo, nonostante le testimonianze di chi era guarito, come quella di una giovane donna incinta. Il resto è cronaca nota.

Lo studio Tsunami sul plasma iperimmune – la ricerca voluta dall’Istituto Superiore della Sanità e dall’Aifa per verificare l’utilità della terapia – aveva scritto la sua sentenza. Le “trasfusioni” non avevano evidenziato benefici, non nei pazienti “gravi” almeno.

Quando il vaccino e l’esperienza nella cura del Covid19 hanno guadagnato terreno, la cura con il plasma iperimmune l’ha perso. Ecco perché oggi, dopo la notizia del suicidio del medico pneumologo, qualcuno ha scritto su twitter che De Donno è stato lasciato solo. Forse sarebbe bastato riconoscere che la cura con il “suo” plasma iperimmune era un cosiddetto “trattamento compassionevole”, che la stessa Commissione Europea ammette in condizioni definite come “emergency/compassionate situations”.

L’uso compassionevole è definito come “il ricorso ad un farmaco, sottoposto a sperimentazione clinica, al di fuori della sperimentazione stessa, in pazienti affetti da malattie gravi o rare o che si trovino in pericolo di vita, quando, a giudizio del medico, non vi siano ulteriori valide alternative terapeutiche, o nel caso in cui il paziente non possa essere incluso in una sperimentazione clinica o, ai fini della continuità terapeutica, per pazienti già trattati con beneficio clinico nell’ambito di una sperimentazione clinica almeno di fase II conclusa” (fonte AIFA).

Questo è stato.