Maxi-operazione contro la mafia nigeriana, un componente della ‘confraternita’ rintracciato a Galatina

È stato rintracciato a Galatina uno dei presunti componenti della cellula della mafia nigeriana, sgominata dalla Polizia nell’operazione Pesha.

Anche il Salento è stato coinvolto nella maxi-operazione della Polizia contro la mafia nigeriana che, per forza intimidatoria e per violenza, non è da meno alle organizzazioni criminali considerate “tradizionali”. Anche la confraternita scoperta dopo una lunga indagine aveva fatto della segretezza il suo punto di forza. Per farne parte, gli adepti non solo dovevano superare i riti di affiliazione, con tanto di giuramento e vincolo a vita, ma dovevano rispettare scrupolosamente un decalogo di regole e pagare anche una sorta di tassa di iscrizione, una specie di ‘finanziamento’ alla congregazione, caratterizzata da una rigida gerarchia con ruoli e cariche cui corrispondono specifici poteri.

La mission? Il compimento di una lunga serie di reati: riciclaggio, prostituzione, droga, lesioni, violenza sessuale. Come alcune delle accuse scritte nero su bianco e contestate agli stranieri fermati, tra il centro Italia e la Sicilia. Tutti componenti della «Supreme Eiye Confraternity», radicata in Nigeria, ma diffusa in tutto il mondo con strutture fotocopia della cosca madre. Insomma, affiliati ad un Nest, una cellula locale degli Eiye – nome che richiama un uccello mitologico della tradizione nigeriana – denominata Pesha che ha competenza territoriale sulla dorsale adriatica, da Teramo ad Ancona.

Tante, tantissime le aggressioni e le violenze documentate contro giovani donne costrette a prostituirsi, secondo lo schema della restituzione del debito, imposto con il rituale Juju o membri della cosca giudicati non sufficientemente fedeli. Tipiche le vendette punitive verso altri connazionali ritenuti di ostacolo alle finalità delinquenziali.

Nel corso dell’indagine, è stato accertato il ricorso a brutali punizioni corporali anche per risolvere conflitti interni e a violenze per costringere altre persone ad affiliarsi al clan. Le riunioni avvenivano, per ragioni di segretezza, nelle abitazioni di alcuni membri con ruolo direttivo: qui gli “ibaka”, i capi, definivano le strategie criminali del gruppo.

Il fermo, disposto dalla Direzione Distrettuale Antimafia di L’Aquila, è stato necessario per un serio pericolo di fuga. Gli indagati sembra avessero intenzione di raggiungere i loro connazionali in Francia, Germania, Belgio e Svezia. Ed erano in corso progetti comuni di espatrio.



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