
Le immagini delle telecamere di videosorveglianza, il racconto dei testimoni, presenti quella sera di ottobre, l’analisi dei telefoni e le intercettazioni hanno permesso agli uomini in divisa di ricostruire il tentato omicidio di Calimera e di dare un volto e un nome allo sconosciuto che ha premuto il grilletto e ha ridotto in fin di vita Giovanni Doria, ferito da quattro colpi a pochi passi da un bar.
«Mo che vuole questo». Sarebbero state queste le ultime parole del 57enne, come raccontato dagli amici e dalle amiche che, quella sera, erano con lui per una birra. Come si legge nell’ordinanza a firma , mentre erano fuori a fumare una sigaretta Doria aveva notato l’auto da cui è sceso lo sconosciuto che poi ha aperto il fuoco. E aveva deciso di avvicinarsi a piedi, raggiungendo lo spartitraffico della strada su cui si affaccia la caffetteria, forse per un chiarimento. Il resto è cronaca: gli spari che hanno lasciato il 57enne sull’asfalto, in una pozza di sangue e la fuga del killer, sull’auto guidata da un complice.
Un altro particolare, nelle testimonianze, ha messo gli uomini in divisa sulla strada giusta. Doria, infatti, aveva confessato di essere infastidito da numerose telefonate: «è tutto oggi che mi stanno rompendo, che mi stanno chiamando» avrebbe detto. Un dettaglio confermato anche da un amico della vittima: qualcuno lo minacciava di «spararlo in testa». L’ultima chiamata era giunta qualche minuto prima del tentato omicidio da un numero non memorizzato. Al cellulare aveva risposto l’amico di vecchia data. L’interlocutore, scambiandolo per Doria, aveva detto «sempre a ddhrai te giri?». Alla risposta che da lì non si sarebbe mosso lo sconosciuto rispondeva «sta bbegnu». A quel punto, l’amico ha invitato il 57enne ad allontanarsi dal bar, ma l’uomo aveva risposto che non aveva alcuna intenzione di andar via «perché non temeva nessuno, ma soprattutto perché voleva sapere chi fosse».
Il racconto di chi era presente quel 2 ottobre è stato confermato dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza che hanno ripreso l’aggressione. Dai frame si nota chiaramente, secondo il Gip, che l’intento dello ‘sconosciuto’ sceso dalla macchina a volto scoperto e noncurante delle persone presenti, era quello di uccidere Doria.
Altri pezzi per completare il puzzle sono arrivati dall’analisi del telefono della vittima. È vero che, quel giorno, aveva ricevuto numerose chiamate, più di cinquanta, sempre dallo stesso numero. Lo stesso da cui era partita la chiamata con la minaccia all’uomo scambiato per Doria, a cui aveva detto «sta bbegnu» forse per dargli una lezione. Il resto lo hanno fatto le intercettazioni che hanno permesso di trovare e identificare l’autore delle minacce, poi tramutate in fatti con il tentato omicidio. Una, in particolare, sembra più chiara, quando parlando con un’amica, il 30enne raggiunto da un’ordinanza di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere accenna al ferimento di Doria, al quale aveva consigliato di farsi una buca, di prepararsi il loculo mortuario ‘solo’ perché non si era allontanato, come da lui consigliato (o intimato). Per questo gli aveva sparato «lui non è andato via, e gli ho fatto la fotografia».
Nonostante i tentativi di non essere scoperto, cambiando rifugio come consigliato dal padre o numero di telefono (ma non cellulare, dettaglio che lo ha incastrato).
La svolta, è noto, è arrivata qualche mese dopo, quando il giovane è stato fermato per un controllo e trovato con una pistola, quella – stabiliranno le analisi – usata per ferire il 57enne.
Ricostruito il tentato omicidio, manca il movente da cercare, probabilmente, nel controllo della vendita di stupefacenti. Panarino, come viene chiamato Doria, una volta uscito dal carcere avrà tentato di riappropriarsi della piazza o di una fetta del mercato della droga, indispettendo il 30enne descritto come un uomo freddo, senza scrupoli: «Non teme nessuno – si legge – e agisce per far capire chi comanda, non ha alcuna remora per ciò che ha commesso, ma anzi il delitto è motivo di orgoglio che ostenta con la donna che frequenta». E ancora «è un latitante che sfugge alla giustizia, ma va in giro per le vie di Calimera e i paesi limitrofi con una pistola con matricola abrasa infilata nella cintura dei pantaloni e commette un grave fatto di sangue, davanti a decine di persone, come a voler dimostrare il suo calibro delinquenziale».
Non solo, manca anche il nome del complice, dell’uomo che guidava la macchina su cui è fuggito quella sera del 2 ottobre.