Omicidio di Chiara Poggi: la verità nascosta a Garlasco – Parte I

“Chi ha ucciso Chiara Poggi? Il mistero del caso Garlasco nei dettagli. Una ricostruzione basata solo su atti giudiziari, sentenze, perizie e documenti ufficiali. Parte 1.

È il 13 agosto 2007 quando Garlasco si trasforma, improvvisamente, nel palcoscenico di uno dei casi giudiziari più discussi e controversi della cronaca nera italiana. Mancano pochi minuti alle 14, quando Chiara Poggi viene trovata senza vita nella sua abitazione di via Pascoli. A chiedere aiuto è stato il fidanzato, Alberto Stasi, studente modello e giovane borghese dalla vita apparentemente perfetta. Ma dietro il volto impassibile del ragazzo prossimo alla laurea alla Bocconi si nasconde (forse) un mistero che, a distanza di tanti anni, continua a dividere l’opinione pubblica.

Questa è solo un capitolo della storia. In questa prima parte, vi guidiamo attraverso la ricostruzione reale dei fatti, delle prove, delle contraddizioni e delle perizie che hanno segnato l’intera vicenda giudiziaria. Un viaggio lucido e drammatico tra le pieghe di un racconto che continua a sollevare interrogativi inquietanti.

I fatti

13 agosto 2007. L’orologio ha appena segnato le 13.50 quando i Carabinieri di Garlasco sono entrati nella villetta di via Giovanni Pascoli su “invito” di Alberto Stasi che, qualche minuto prima, aveva bussato alla porta della Caserma per raccontare di aver trovato il corpo della fidanzata Chiara Poggi. Un annuncio gelido, apparentemente calmo, che da subito sembrò stonare con l’orrore che, di lì a poco, sarebbe stato scoperto.

I militari, dopo aver scavalcato il cancello pedonale ed aperto la porta d’ingresso, trovata socchiusa, avevano trovato il corpo senza vita della ragazza sulla scala della tavernetta, con la testa appoggiata al muro. La luce era accesa. Indossava il pigiama e, come ha dimostrato l’autopsia, aveva da poco fatto colazione. “Dettaglio” che, secondo alcuni esperti, sposta l’orario della morte poco dopo le 9.12, quando Chiara ha disattivato l’allarme dell’abitazione, attivato durante la notte. Sempre a quell’ora, una testimone aveva notato una bicicletta nera da donna, appoggiata al muro di casa Poggi. Anche un’altra testimone racconta di aver notato la due ruote ‘nera’ accanto al cancello pedonale. Occhi diversi, stesso dettaglio.

La ricostruzione dell’omicidio

Chiara è stata colpita con uno strumento pesante per la prima volta in soggiorno, accanto alla scala che conduce al piano superiore, dove era stata trovava una pozza di sangue con i suoi capelli, strappati dalla violenza del colpo. Non muore subito, ma non ha la forza di reagire. Una volta tramortita, è stata trascinata “senza tentennamenti” sul pavimento, colpita ancora al capo, “forse per una sua reazione”, davanti alla porta della tavernetta che, come dimostrano gli schizzi di sangue, era chiusa e, solo alla fine, è stata gettata sulle scale, dove ha battuto la testa sul quarto gradino, come dimostra la pozza di sangue. Chiara, però, è stata trovata a testa in giù, in una posizione diversa da quella che aveva visto il suo assassino.

Il corpo della ragazza era scivolato a causa della naturale forza di gravità, adagiandosi sul nono gradino. Un particolare che diventerà un primo indizio contro Stasi che si preoccupa di raccontare di essere rimasto a casa, quella mattina, per scrivere la tesi. Lo studente, nella telefonata fatta al 118 alle 13.50 davanti alla Stazione dei Carabinieri, distante circa 600 metri dall’abitazione dei Poggi, con tono ritenuto “innaturalmente distaccato” dichiara di aver visto Chiara “sdraiata per terra”.

Prima incongruenza: perché chiama il 118 e non attende l’arrivo dell’ambulanza, ma va in Caserma nonostante non sia convinto che la fidanzata fosse morta?

“Credo che abbiano ucciso una persona, non ne sono sicuro, forse è viva”, dice. Parole che suonano freddamente composte, come recitate, troppo distaccate per provenire da un ragazzo che ha appena trovato il corpo della propria fidanzata riverso sulle scale, forse ancora viva.

La scoperta del corpo

Perché cambia ‘versione’ quando ha rilasciato “sommarie informazioni testimoniali”? In quella sede, Alberto racconta di essere andato a casa di Chiara perché non aveva ricevuto risposta. Ha raccontato di aver scavalcato il muro di cinta, di aver trovato la porta di ingresso aperta, di aver cercato la fidanzata “con passo veloce (quasi correndo) e senza fare attenzione a dove poneva i piedi” e di aver trovato il corpo di Chiara, questa volta, sulle scale della cantina. Ha anche descritto le difficoltà incontrate per aprire la porta a libro della tavernetta, dove c’era il cadavere della ragazza nella parte finale della scala. Indossava un pigiama rosa, il viso era pallido (descrive bene il colore chiaro della sua pelle, essendo, a suo dire, abbastanza visibile la parte destra del suo volto). Il 17 agosto torna sulla la luce che era spenta, lui non l’aveva accesa, come dichiarato anche nel rapporto dei Carabinieri. Ma quella luce, determinante nella lettura della scena, diventa uno dei tanti elementi al centro di un confronto tra tecnicismi e logica.

Le perizie e il mistero delle scarpe pulite

Questa testimonianza, con il tempo, è diventata un terreno per una battaglia di perizie che hanno cercato di spiegare il mancato imbrattamento delle scarpe, nonostante avesse attraversato la scena del delitto. Per la difesa, Stasi poteva aver facilmente evitato le macchie di sangue più grandi, mentre quelle più piccole, che sarebbe stato impossibile non calpestare, si erano in tutto o in parte essiccate quando era entrato in casa dei Poggi a distanza di circa 4 ore dall’omicidio. Non solo, secondo i giudici che lo hanno assolto, eventuali imbrattamenti di modeste dimensioni potevano essere stati asportati dal successivo calpestamento di ghiaia, erba bagnata del giardino, irrigato automaticamente nelle ore notturne e la pulizia sullo zerbino. Queste argomentazioni valevano anche per spiegare il mancato rinvenimento di macchie di sangue sui tappetini dell’auto con cui Stasi era giunto a casa dei Poggi e si era poi recato in caserma (sequestrata 7 giorni dopo).

Ammettendo questa (remota) possibilità, che non si sia sporcato entrando in casa di Chiara perché era stato “attento” (come poteva accorgersi delle macchie difficilmente percepibili a occhio nudo, per effetto del tipo e colore del pavimento?) secondo la perizia diventata determinante è impensabile che Stasi, dopo aver trovato il corpo della fidanzata, priva di sensi e ferita “abbia potuto preoccuparsi di non calpestare il sangue nel percorso di allontanamento dall’abitazione”.

Insomma, partendo dalla premessa che nessuna perizia è in grado di stabilire, con assoluta certezza, il percorso fatto da Alberto Stasi una volta entrato di Chiara, per cercare di formulare un giudizio sul perché non erano state trovate tracce di Dna sulle calzature, si è cercato di partire dal comportamento che l’imputato ha raccontato di avere avuto.

Stasi ha dichiarato di essersi accorto del sangue nell’ingresso, di essersi subito diretto nella sala dove c’era la televisione accesa, di avere visto che il bagno era vuoto, di non avere visto niente vicino alla porta di accesso ai box, di essere tornato indietro e di avere aperto la porta delle scale della cantina, di essere sceso di uno o due gradini e di avere visto Chiara sulle scale con il viso verso terra.

Attenzione a queste dichiarazioni. Alberto racconta di aver notato solo il pigiama rosa, ma non lesioni, di avere visto il sangue sui primi gradini, di essere scappato e di avere chiamato il 118 per chiedere un’ambulanza, che non ha aspettato, decidendo, invece, di andare, in auto, in caserma. Nelle dichiarazioni del 13 agosto, poche ore dopo, precisava che la porta di ingresso era chiusa, ma non a chiave; confermava il percorso già descritto specificando di avere evitato le macchie di sangue mantenendosi sul centro-destra del corridoio; di aver trovato la porta a libro chiusa e che, una volta aperta con difficoltà, aveva notato il sangue in basso a destra e, sporgendosi in avanti dal primo gradino, il corpo di Chiara “all’incirca nella parte finale delle scale”: nel tornare all’esterno rapidamente non faceva attenzione a dove metteva i piedi. Non escludeva, pur senza ricordarlo, di avere calpestato qualche macchia di sangue. Confermava di avere visto il sangue sui primi due gradini della scala della cantina e nel salone davanti alle scale verso il primo piano, mentre negava di avere visto la macchia davanti alla porta della cantina. Non aveva mai acceso la luce. II 17/8 ribadiva di non avere prestato molta attenzione a dove metteva i piedi, di essersi mosso velocemente; ribadiva ancora di avere fatto fatica ad aprire la porta della cantina.

Le telefonate e la freddezza del comportamento

Non solo, Stasi ha raccontato che quella mattina ha chiamato più volte la fidanzata, sia dal dal cellulare, che dal telefono fisso e che per questo si sarebbe recato a casa Poggi, ma l’ultima chiamata, come è stato dimostrato, non è rimasta senza risposta a causa dell’entrata in funzione del segnale di allarme dell’abitazione.

“Appare quantomeno strano – si legge – che Stasi, trovandosi in un comprensibile stato di ansia dovuto alla mancanza di risposte che perdurava da ore, accortosi inevitabilmente era accaduto qualcosa di grave (avendo notato il sangue e, nell’ingresso, anche un oggetto rovesciato), dopo avere trovato Chiara, all’esito di una ricerca descritta come affannosa, riversa in fondo alle scale non si sia precipitato accanto a lei per verificarne le condizioni. Tanto più che ha chiamato il 118, dimostrando così di aver pensato che potesse essere ancora viva. Al contrario, usciva velocemente dalla casa, si ricordava di chiudere il cancello tant’è che anche i Carabinieri hanno dovuto scavalcare il muro di cinta, saliva in macchina diretto in caserma, senza attendere nemmeno i soccorsi”. Una volta tornato con i militari, era rimasto all’esterno della villetta, ancora senza verificare quali fossero le condizioni della fidanzata.

“Se è pur vero che in determinate circostanze si possono tenere comportamenti privi di logica e del tutto incongrui e ferma restando la impossibilità “tipicizzare” di particolari situazioni, i comportamenti umani a fronte di particolari situazioni, nel caso in questione tale illogicità si trasforma in inverosimiglianza. Come è visto Stasi-scopritore non lasciava tracce del suo passaggio nella villetta: pur in ansia, pur di corsa, pur spaventato, anche presenza di plurime macchie di sangue di notevoli dimensioni, pur ponendo in essere una manovra a suo stesso dire complessa e non di immediata attuazione per aprire la porta a libro, pur essendo sceso e risalito di uno o due gradini, avrebbe evitato di calpestare macchie di sangue, di imbrattarsi le scarpe”.

Il sospetto, che poi è stato determinante nella sentenza di condanna, è che Alberto Stasi abbia mentito quando ha raccontato di essere entrato a casa Poggi alle 13.50 e che la sua descrizione del ritrovamento del corpo di Chiara e della scena del crimine sia quella che poteva fare solo il suo aggressore.

La questione delle impronte è stata realmente al centro di un dibattito acceso tra accusa e difesa. I legali di Stasi, per dimostrare la sua credibilità, hanno sottolineato che nemmeno gli uomini in divisa, entrati sulla scena del delitto, hanno lasciato impronte, ma per la Cassazione i militari indossavano scarpe con suola liscia e, comunque, erano stati allertati dall’imputato in merito all’accadimento di qualcosa di “grave”. Gli stessi, infatti, hanno riferito di aver prestato attenzione alle macchie di sangue allo scopo di evitarle.

L’impronta sul dispenser del bagno

Altro indizio a carico di Stasi, insieme alle tracce di Chiara sui pedali di un’altra bicicletta, era la sua impronta sul contenitore del sapone liquido nel bagno al piano terra, dove è stato trovato anche il DNA della vittima. L’aggressore, stando alla ricostruzione del percorso fatto dopo l’omicidio, è entrato – anche in questo caso con sicurezza – nel bagno del piano terra, come dimostrano le impronte delle scarpe lasciate davanti al lavandino probabilmente per lavarsi le mani. Che si fosse imbrattato di sangue lo dimostrano le impronte, perse ma fotografate, lasciate sul pigiama di Chiara. Nel sifone, però, di sangue non c’è traccia, circostanza che aveva portato il giudice di primo grado a ritenere che l’aggressore non si fosse mai lavato le mani. E allora perché sul flacone non c’era nessuna impronta? Nemmeno quella della madre, di Chiara o di chi utilizzava la toilette al piano terra? La traccia sul dispenser, quindi, era stata lasciata non dopo il lavaggio delle mani, ma dopo la “ripulitura” della scena. Ecco perché, come si legge nella sentenza di condanna, è stata trovata solo l’impronta dell’anulare, lasciata probabilmente quando l’oggetto è stato rimesso, con cautela, al suo posto dopo essere stato pulito.

La Difesa aveva sostenuto che Stasi avrebbe potuto usare il sapone la sera prima per lavarsi le mani dopo avere mangiato la pizza (sui cui cartoni venivano rinvenute ulteriori impronte a lui attribuite): ciò tuttavia non spiega perché proprio solo l’impronta dell’anulare e perché in quella anomala posizione, così come non spiega l’assenza di impronte di Chiara (che pure aveva mangiato la pizza).

Gli orari

Se Chiara è stata uccisa subito dopo aver disattivato l’allarme, Stasi – che agli uomini in divisa aveva dichiarato di essere rimasto a casa tutta la mattina a scrivere la tesi di laurea – non ha un alibi. Il pc è stato acceso alle 9.35, dopo che l’allarme era stato disattivato e dopo che la testimone aveva notato la bicicletta appoggiata al muro. Stasi non ha mai menzionato, tra le quelle in suo possesso, proprio quella nera da donna da subito collegata al delitto mentre ha da subito sviato le indagini, ipotizzando un incidente domestico e messo messo a disposizione degli inquirenti tutto ciò che, nel tempo, ha assunto interesse investigativo. C’era tutto il tempo, secondo l’accusa, di uccidere Chiara e ‘fingere’ di lavorare alla tesi, come è realmente accaduto dalle 10.17 alle 12.20 quando il computer portatile è in standby. L’altra finestra temporale per collocare l’omicidio, dalle 12.20 alle alle 13.26, quando Stasi chiama la fidanzata per l’ultima volta, prima di decidere di andare a casa sua a controllare, è stata esclusa. In questo caso, il medico legale che ha effettuato l’autopsia non avrebbe trovato tracce di cibo a causa dello svuotamento gastrico.

Alberto aveva avuto il tempo di uccidere Chiara, trascinarla e gettarla sulle scale della cantina, lavarsi le mani, tornare a casa in bicicletta? Sì, secondo la Cassazione perché “le operazioni di ripulitura, di eliminazione di abiti, scarpe e di ulteriori tracce dell’omicidio non vanno conteggiate nella finestra temporale dei 23 minuti, trattandosi di operazioni che potevano essere portate a compimento successivamente all’omicidio, compatibili con le ulteriori finestre temporali -sino al rinvenimento del corpo di Chiara -in cui Stasi è rimasto privo di alibi accertato” .

Le piste scartate

Poteva essere stata una rapina finita male? Non c’erano segni di effrazione, dalla villetta non era stato portato via nulla se non l’arma del delitto e qualche asciugamano, non c’erano impronte ‘estranee’ e Chiara non avrebbe mai aperto la porta in pigiama. “Il visitatore mattutino – si legge – era certo persona che lei ben conosceva e probabilmente aspettava, tanto da non preoccuparsi di accoglierlo ancora in pigiama, con il letto sfatto e la televisione accesa, in una casa non ancora riordinata e con le finestre chiuse”.

La ricostruzione dell’omicidio, poi, suggeriva una qualche conoscenza delle abitudini della ragazza e dell’abitazione. “La porta a libro della cantina, chiusa e dall’esterno identica alle altre porte dell’abitazione, induce a ritenere che l’aggressore ben conoscesse anche la casa e la dislocazione dei locali”.

Se fosse stato un ladro, si è detto, perché avrebbe dovuto aspettare il momento esatto in cui era stato disattivato l’allarme per entrare dal giardino con il rischio di essere scoperto? E ancora…perché uno sconosciuto, colto sul fatto, avrebbe dovuto accanirsi così sul corpo? E che necessità aveva di trascinare la vittima per gettarla dalle scale? “Uno sconosciuto aggressore, come un ladro sorpreso da una presenza inattesa, avrebbe inoltre presumibilmente esaurito la sua reazione violenta nell’ingresso, così da poter subito scappare senza attardarsi ulteriormente per nascondere il corpo”. Non solo, ma ciò che più rileva, è che Chiara non si è difesa e non ha reagito affatto, a ulteriore conferma del rapporto di estrema confidenza e intimità col visitatore, e del fatto che proprio per questo si fidasse di lui e non si aspettasse in nessun modo di venire da lui così brutalmente colpita. Non solo, ma ciò che più rileva, è che Chiara non si è difesa e non ha reagito affatto, a ulteriore conferma del rapporto di estrema confidenza e intimità col visitatore, e del fatto che proprio per questo si fidasse di lui e non si aspettasse in nessun modo di venire da lui così brutalmente colpita.

L’incidente domestico

La simulazione di un incidente domestico, che bene poteva spiegare la posizione della vittima a testa in giù, spiegherebbe il lancio del corpo di Chiara lungo le scale della tavernetta, altrimenti del tutto inutile, perché l’omicidio poteva concludersi al piano terreno, dove tutto aveva avuto inizio. “E ancora una volta difficile ricondurre tale azione ad un estraneo, che non poteva certo sapere cosa ci fosse, al di là di quella porta, così come colpisce che Stasi abbia parlato, nella sostenuta veste di scopritore, di un incidente domestico. Altre incongruenze riguardano la posizione finale del corpo della vittima e le condizioni del suo volto. Stasi, secondo l’accusa, aveva descritto quello che aveva visto in qualità di aggressore e non di scopritore (“la parte destra non era coperta da sangue e da indumenti, né tantomeno da capelli, era abbastanza visibile, anzi preciso che constatavo il colore nitido della sua pelle che era chiaro”). Come dimostrano le fotografie scattate sulla scena, il viso della vittima era quasi interamente intriso di sangue, cosi come i capelli che parzialmente lo coprivano. E ciò, soprattutto, se si tiene conto dalla visuale indicata dall’imputato, ovvero dall’alto, a livello dei primi due gradini, e della curva delle scale.

Il biancore del volto stride con tali risultanze, mentre sembrerebbe meglio adattarsi ad una visione “precedente”, in cui cioè il viso della giovane non era ancora in quelle condizioni.

(continua nella Parte II…)

Nella seconda parte entreremo ancora più a fondo analizzando i tasselli mancanti, le ipotesi alternative e i dubbi sollevati. Un approfondimento rigoroso, sempre fondato sulle carte processuali, per cercare di capire cosa è davvero accaduto quella mattina del 13 agosto 2007 a Garlasco.